Trattandosi di Sonic Youth non si può parlare, ovviamente, di un nuovo disco, ma di echi e di vibrazioni tali da attraversare il tempo, lo spazio, gli eventi e le mode. “Basement Contender” è l’incipit strumentale, lisergica e penetrante, di un progetto nel quale le chitarre esplorano una dimensione sonora in cui le distorsioni, le armonie, i riverberi e le dissonanze si intrecciano tra loro ed assumono un fascino estraniante, magico, drammatico e misterioso.
L’amarezza della fine, un rapporto che, inesorabilmente, va in frantumi, il vuoto che divora ogni schema e ogni riferimento mentale, i ricordi che si gonfiano di ammaliante veleno, la voce sinistra delle nostre ossessioni, l’urlo feroce della sconfitta, tutto ciò si sfalda dinanzi al tocco epico ed avvolgente di questi cinque brani, mentre, nel frattempo, l’elettricità che “Machine” libera tutt’intorno a noi ci restituisce il vigore dei nostri sogni e delle nostre promesse, le quali, in realtà, hanno continuato a vivere all’ombra dei nostri sentimenti e dei nostri segreti inconfessati.
Ma adesso i loro esili sussurri possono, nuovamente, uscire dal tetro silenzio e ritornare ad essere affascinante e costruttivo rumore; “Social Static” irrompe in questo cupo presente, si abbatte come un martello sui peggiori fantasmi del passato, sulle più contorte e torbide visioni che infestano il futuro, restituendoci una band che è, allo stesso tempo, piacere e frustrazione, rabbia e passione, melodia e sperimentazione, gentilezza e violenza, dentro e fuori.
La realtà viene destrutturata e assume la consistenza di enigmatici e voraci schizzi sonori, i quali sembrano trovarsi a loro agio in quest’epoca così minacciosa, agguerrita ed ostile, proponendosi come il contrappeso naturale alla fluida e precaria inconsistenza che caratterizza le attuali politiche umane. Dietro questi eroi virtuali, infatti, vi è un abisso che risucchia ogni individualità, ogni percezione soggettiva, ogni singolo stato emotivo, ripagando tutti, in egual modo, con la medesima asfissiante e omologante moneta. Meglio, dunque, sentire le dissonanze farsi strada nella carne, caricarsi di preziosa inquietudine, sovrapporsi ai nostri pensieri, tramutarsi in una liberatoria sintesi di ricercatezza psichedelica, istintivo noise-rock e un approccio al mondo e agli altri estraneo ai condizionamenti sociali, alla facile diffidenza e alla antica paura di sbagliare ed esser, di conseguenza, derisi e giudicati. Sta a noi far sì che le nostre idee possano fluttuare spensierate, sta a noi guardare avanti, piuttosto che nascondersi in ciò che è già stato detto, scritto e suonato: “In/Out/In” fotografa momenti precisi del passato, ma noi, invece, siamo immersi nell’attualità, abbiamo il dovere di non escluderla dalle nostre vite, altrimenti diventeremmo inutili fantocci, mentre, invece, il nostro compito è quello di conoscere, di lottare, di esprimere la parte migliore della nostra creatività e quindi della nostra umanità. Questo è l’unico antidoto al Male.
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