“And did we tell you the name of the game, boy / We call it riding the gravy train”.
Taylor Hawkins è lo specchio nel quale puoi ritrovare la ruggente purezza dei batteristi degli anni Settanta; un fiume increspato e vorticoso, pieno di gorghi, che tocca sensibilità diverse, da Charlie Watts a Roger Taylor, da Stewart Copeland a John Bonham, e senza il quale non avremmo, probabilmente, mai ascoltato le ritmiche ossessionate ed esplosive dei Nirvana, dei Soundgarden o dei Jane’s Addiction.
Un mondo grezzo e passionale, nel quale non è necessario che tutto sia perfetto; una dimensione terribilmente spontanea, capace di contenere, nel suo grembo, gioie e frustrazioni, l’euforia di momenti straordinari e tutta la claustrofobia di una società sempre più chiusa, incline alla retorica e al buonismo, alienante ed estraniante, nella quale era sempre più facile perdere il sentiero lastricato di mattoni gialli che conduceva dai Rolling Stones ai White Stripes e perdersi nei profondi e narcotizzanti abissi dei nostri peggiori abusi e delle nostre peggiori condanne.
Questione di controllo? Forse sì. Forse no. Per qualcuno potresti essere sempre troppo rumoroso, per qualcun altro sempre troppo veloce; ci sono voci ovunque e, spesso, vogliono solamente condizionarti, privarti della forza della tua naturalezza e lasciare che una voragine di compromessi risucchi tutto quello che di buono hai creato attorno a te, ad iniziare dalla tua famiglia e dai tuoi amici.
È un gioco assolutamente perverso, ci giochiamo tutti e, il più delle volte, non ce ne rendiamo assolutamente conto. Siamo parte di un processo collettivo, seguiamo le medesime linee di basso, esplodiamo nei medesimi rabbiosi assoli di chitarra, mentre il cuore tenta di elaborare e costruire i suoi riempimenti, di cancellare ogni spazio vuoto, di colpire il rullante proprio al centro, illudendosi di non dover esser necessariamente radiofonico, di non dover piacere a chiunque, di non dover essere qualcuno di diverso dal ragazzo che suona la sua batteria, mentre il mondo, nel frattempo, sta andando freneticamente e frettolosamente a puttane, divorato dall’ennesima gelida giornata di sole.
Perché, allora, ci sforziamo sempre di trovare qualcuno da incolpare? Perché ci chiudiamo in giudizi sferzanti? Perché lasciamo che gli altri affoghino in una triste pioggia domenicale?
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