Siamo abituati, in tante storie di fantascienza, a passaggi e scorciatoie tra dimensioni diverse, che permettono, in un tempo praticamente infinitesimale, di essere altrove. La stessa cosa avviene, nell’universo della musica, con i C’mon Tigre che si spostano, grazie alle loro traiettorie oblique e imprevedibili, da una dimensione sonora all’altra, codificando un linguaggio peculiare fatto di atmosfere funk, di beat elettronici, di contaminazioni afro, di uno sguardo perennemente rivolto al mondo circostante, alle voci, ai suoni, ai rumori, alle persone e ai luoghi che toccano la nostra fantasia e suscitano il nostro interesse e che, in maniera sintetica, ma probabilmente troppo riduttiva, definiamo come world music.
In realtà, lo scenario nel quale il collettivo italiano si muove non adotta alcun riferimento statico, non separa ciò che è dentro e ciò che è fuori, non distingue cosa sia lontano e cosa sia vicino, non concede alcun privilegio a tutto ciò che, solitamente, identifichiamo come cultura occidentale, ma è consapevole, invece, che ogni tempo, ogni spazio, ogni mito, ogni cultura, ogni leggenda, ogni narrazione storica, religiosa o filosofica nascondano tesori che debbono solamente essere scoperti, compresi, studiati e resi fruibili agli altri, in un percorso di crescita collettiva nel quale le svariate sensibilità e le diverse esperienze umane possano essere messe, finalmente, a fattor comune e migliorare, di conseguenza, l’armonia esistente tra le diverse persone.
In un’unica parola, pace, qualcosa di cui, oggi, con l’ennesimo, dirompente conflitto – questa volta così prossimo alle nostre città e alla nostra quotidianità – comprendiamo la fondamentale importanza in maniera viscerale, in un modo che, cioè, ci tocca, spiritualmente e che, allo stesso tempo, è drammaticamente reale.
“Scenario” diffonde i suoi dodici semi per il mondo, senza preoccuparsi dei tanti confini geo-politici tracciati sulle mappe, ma tentando, attraverso il suo approccio fluido alle diverse atmosfere elettro-folkeggianti che caratterizzano l’album, in una riuscita simbiosi di tradizione e di rinnovamento, di aperture digitali e di appigli analogici, di offrire una prospettiva culturale, sociale, politica ed economica alternativa alle teorie e ai modelli che costringono gran parte di questo pianeta ad essere stravolto dalle guerre, dalla povertà, dalla fame, dalle malattie e da ogni tipo di ingiustizia.
“Kids Are Electric” è l’energia pura, veritiera ed onesta delle nuove generazioni, un’energia che non va più contaminata con i veleni tossici del capitalismo globalizzato, ma va preservata, protetta ed amata con tutto l’impegno e la partecipazione di “La Mer Et L’Amour”, mentre i bassi profondi di “Supernatural” ci rammentano che non possiamo più abbassare la guardia, non possiamo più fingere di non vedere e girarci dall’altro lato: “Migrants”, senza alcun bisogno di ulteriori, superflue ed inutili parole ci mostra il volto del Male, quello più assurdo, arrogante e brutale, quello che vuol portarci via la bellezza incontaminata e rasserenante di “The River”, quello che vuole divorare le immagini fantasiose di “Automatic Ctrl”, quello che vuole silenziare i vividi battiti di “Burning Down”, narcotizzandoci con le sue eccessive dosi di violenza e di paura nell’estraniante bolla di “Sleeping Beauties”.
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