Il sole-sciamano è un sole nero, le sue fiamme oscure ardono di sonorità metalliche, psichedeliche e claustrofobiche, mentre, esso, sospinto dal soffio impetuoso dei nove brani di “Mana”, appare sempre più minaccioso e prossimo alla Terra, a quello schianto che darà inizio ad una apocalisse nucleare che annienterà, nell’indifferenza delle forze misteriose che governano l’universo, la nostra sciagurata specie. “Kyouku” assume la consistenza di un canto epico e ancestrale, le cui trame catturano ogni nostro pensiero e ogni nostra emozione, prima che “Ichor” e “Sangoma”, la luce più accecante e il buio più viscerale, ci mostrino come, spesso, la salvezza e la dannazione, la virtù ed il peccato, il paradiso e l’inferno, non siano altro che le due facce della medesima luna.
Lili Refrain libera, oltrepassando qualsiasi barriera linguistica, sociale e politica, gli istinti passionali che si nascondono nei meandri delle nostre coscienze, laddove il materialismo tecnologico del mondo moderno non può intaccare la loro energia mistica, pura e primordiale, la stessa energia che ritroviamo nella voce incantevole e spietata di una sirena, nelle onde del mare, negli anfratti ignoti della notte, nel crepitio del fuoco, in ogni sussurro degli spiriti della natura. Tutto ciò si trasforma, anche grazie al tocco cosmico dei sintetizzatori, in una musica capace di amplificare la bellezza presente in qualsiasi opera del Creato – esseri umani compresi – ma anche la loro innata pericolosità, la loro essenza brutale, selvaggia, tragica e irrazionale. Ecco, dunque, che, da un lato, si erge, nel materialismo blasfemo, egoista e assolutista dei tempi moderni, il canto tribale dell’artista italiana, le sue sovrapposizioni strumentali e verbali, analogiche e digitali, mentre, dall’altro, in opposizione di fase, c’è il caos, che, richiamando le ombre più voraci e violente del nostro recente passato, vuole realizzare il suo sogno auto-distruttivo, annichilendo l’intero pianeta, ogni forma di vita e cancellando, per sempre, il contenuto divino e sacrale celato nei rapporti umani, siano essi riconducibili alla famiglia, all’amicizia o all’amore.
Queste ombre bramano solo il vuoto, “Mami Wata” ci accompagna, lenta e suadente, saturando ogni nostro ricordo, verso il baratro dell’eternità, dove il tempo e lo spazio divengono un’unica cosa, una sola idea infinita e ogni nostro sentimento, nel bene e nel male, viene amplificato a dismisura, permettendoci di concepire una nuova destinazione, una nuova casa o radendo al suolo, in modo irrimediabile, spinti dalle peggiori pulsioni, sotto una pioggia di missili e di bombe, sotto i cingoli pesanti dei carrarmati o lo sguardo artificiale di droni, satelliti e aerei-spia, quella che è la nostra attuale casa.
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