La necessità di far ascoltare la propria voce e quindi di mettersi in connessione col mondo esterno in modo onesto e assolutamente veritiero, senza i nuovi dogmi e paradigmi informatici, insita in “Dogrel”, la frustrazione rabbiosa di “A Hero’s Death” nei confronti di un meccanismo mediatico stritolante che ripaga il successo e la fama ottenuti esigendo in pegno la tua umanità ed infine, come ultimo step evolutivo, l’esodo necessario di un intero popolo come raffigurazione dell’esodo emotivo di ciascuno di noi, alla ricerca di una terra promessa nella quale poter esprimere, senza paura, i propri sentimenti e poter costruire un futuro che non sia fatto solamente di urgenze, compromessi ed attese, ma anche della realizzazione concreta dei propri sogni.
E così il post-punk dalle accattivanti sfumature shoegaze dei Fontaines D.C incontra, dal punto di vista filosofico e spirituale, la musica delle tradizioni irlandesi in modo aperto e palese, senza alcun timore di giudizio o stroncatura, non perché la band senta il dovere di esaltare quelle che sono le proprie origini o la propria nazionalità, ma piuttosto per ritrovare, nel passato più ancestrale e nascosto, la vera motivazione delle proprie fobie e delle proprie passioni, delle proprie colpe e delle proprie giustificazioni, della propria fede e dei propri peccati. Un percorso che dovremmo fare tutti, senza ambiguità, senza scadere nell’abominio del becero e volgare populismo, ma per ritrovare quella scintilla che ci permetta di sentirci unici, diversi e veri e, allo stesso tempo, ci sproni a trovare anche altrove – si parli di Dublino, di Londra, di Roma o di un qualsiasi paesino sperduto nelle periferie del mondo – la stessa unicità, la stessa diversità, la stessa verità. Solo così potremo davvero crescere e iniziare a comprendere gli altri, sorpassando ogni autoritarismo e ogni subdolo e feroce tentativo di manipolazione e controllo, esercitato, spesso, da chi pensa di essere più forte, più ricco, più potente. Un’insofferenza, quindi, che non guarda solo al mondo occidentale, all’imperialismo anglo-americano, ma a chiunque, oggi, tenti di imporre, con prepotenza ed arroganza, la propria autorità agli altri attraverso le armi, l’economia o le pressioni politiche.
“Skinty Fia” è, dunque, il lavoro più politico della band irlandese, uno sguardo amaro ed insofferente sulle ferite aperte del mondo, attraverso gli occhi disincantati di una persona che abbandona la propria casa, senza riuscire nemmeno a capire se lo voglia davvero o se sia stata costretta da tremendi eventi esterni. Eventi che è giusto combattere, anche a costo della propria stessa vita, anche quando, da più parti, ti dicono che devi arrenderti, che devi fuggire, che devi nasconderti, perché tu, sai benissimo, che, altrimenti, se farai come ti dicono, il senso di colpa, per aver abbandonato chi amavi, non ti lascerà mai, accompagnandoti ovunque, anche al di là del grande mare.
“Skinty Fia” vive, contemporaneamente, nel tempo passato, ma anche in quello attuale, nelle guerre che combattiamo, quotidianamente, dentro di noi, ma anche in quelle che stanno, letteralmente, trasformando questo pianeta in un grosso e triste cimitero. Tutte le guerre, ovunque esse vengano combattute, qualsiasi siano le parti in causa, i loro torti e le loro ragioni.
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