L’opener “Pana-Vision” apre le porte di una dimensione policromatica: ogni arpeggio, ogni melodia e ogni vibrazione colorano il cuore della splendida Ferrara di una diversa tonalità di blu, di rosso, di verde o di giallo, mentre il campanile della cattedrale di San Giorgio unisce il palco ed il cielo, rammentando alla nostra umanità, sempre più arida e svuotata di contenuti, che, senza il suo fondamentale contributo, nessuna tecnologia potrà essere davvero sicura, nessun progresso scientifico potrà essere davvero giusto, nessun algoritmo potrà essere davvero democratico. Anche le macchine, infatti, possono sbagliare; anche le macchine, infatti, possono, fatalmente, fallire.
Intanto “Thin Thing”, intensa e commovente, “The Opposite”, estraniante e ballabile, e “Speech Bubbles”, agile e tagliente, sembrano volersi prendere gioco dell’ineluttabilità del tempo, favorendo la creazione di un contatto diretto tra le persone, tra i luoghi e persino tra le epoche, utilizzando la musica come un linguaggio extra-dimensionale; l’unico linguaggio in grado di individuare i punti fermi dell’esistenza e mostrarci i nostri limitanti cliché, i nostri morbosi loop mentali e i nostri pericolosi luoghi comuni, per ciò che essi sono davvero: il tentativo disumano di soffocare il piacere, i sogni e le passioni, in funzione del progresso.
Un progresso che, come ci rammentano le trame ipnotiche di “We Dont’ Know What Tomorrow Brings” e soprattutto le sonorità ossessive, irruente e punkeggianti di “You Will Never Work In Television Again”, è basato, esclusivamente, sulla costruzione di un enorme alveare, efficiente e produttivo, nel quale le persone perdono le proprie individualità e il proprio spirito critico e sono accettate e valutate solamente in base a quelle che sono le performance offerte. Ciò impoverisce le nostre intelligenze, oltre a rendere sempre più deserti i nostri cuori, facendoci regredire ad uno stato infantile. Viviamo, infatti, nell’illusione di poter afferrare la Luna con le nostre stesse mani; la società neo-liberista viene spacciata come una sorta di immenso grembo materno che ci coccola e ci permette di vivere in pace, abbondanza, benessere e sicurezza, sollevandoci, parallelamente, da ogni responsabilità nei confronti del prossimo, del debole, del povero, del malato, del sofferente.
Nel mentre i led luminosi sullo sfondo del palco, essenziali, ossessivi e minimali, sono una raffigurazione visiva della nostra alienante solitudine emotiva; Thom, Jonny e Tom si ergono, come fossero uno degli ultimi argini umani esistenti, tra il pubblico e l’innaturale attrazione a sparire, a dimenticare, a fuggire, per sempre, in quelle luci artificiali e narcotizzanti.
Il nostro compito, invece, è restare qui e prendere coscienza dei dubbi, delle fragilità, degli egoismi, delle false promesse che ci limitano e ci condizionano. Chi sarà il prossimo, dunque, a prometterci la Luna? Un gangster? Un troll? Un altro profeta? Un governo composto solo da migliori? Una ragazza di plastica? Un uomo che guarda il mondo solo attraverso lo schermo del proprio cellulare?
Non abbiamo alcuna certezza cui aggrapparci, nessuna risposta infallibile, non siamo automi, non siamo macchine, non siamo androidi paranoici, ma, proprio per questo motivo, siamo certi che, stasera, la Luna sonora sulla quale si è materializzata Ferrara è un prezioso punto di partenza per comprendere quello abbiamo e che stiamo, stupidamente, sciupando e distruggendo, ad iniziare dai nostri rapporti affettivi, per finire con le violenze, le prepotenze, le guerre che stanno, sempre più velocemente, dilaniando il mondo.
Una playlist paranoica ispirata al concerto, buon ascolto!
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