E’ come se tutti i “se” del mondo si fossero materializzati, improvvisamente, sul nostro cammino, rendendoci complicata e pesante ogni scelta, ogni passo, ogni decisione. Dopo il dirompente “Uppers” che dava voce agli istinti più rumorosi che vivono dentro di noi, è giunto il momento dell’introspezione, delle domande, del futuro, della ricerca. “My Other People” è, infatti, un disco più intimo, un disco che tenta di entrare in sintonia con le storie e le necessità di ciascuno di noi, perciò, in tal senso, esso, a differenza del lavoro precedente, è più collettivo, più incline a raccordarsi con i fatti e le esperienze soggettive degli ascoltatori, piuttosto che spronarli, unicamente, in modo perentorio ed oggettivo, a liberarsi dai propri, spesso assurdi e infondati, tormenti e seguire la via catartica dell’energia e del noise-rock.
Restano, ovviamente, i momenti sporchi e graffianti, il desiderio di creare melodie che possano esorcizzare la negatività, ad iniziare da quella che, come accade in “It Was Beautiful”, si nasconde nel passato per poi assalire e corrodere il nostro presente. Un tempo che è, di per sé, già drammaticamente traumatico e particolarmente adatto ad essere descritto attraverso quelle sonorità e quelle atmosfere apocalittiche, intrise di crudo e minimale post-punk, che tante band, in questa bellicosa stagione post-pandemica, nella quale solo gli speculatori senza scrupoli sembrano prosperare, hanno deciso, fatalmente, di sposare e fare proprie.
Corsi e ricorsi storici, i giorni che seguono la Brexit, sono sempre più simili a quell’epoca cupa nella quale i governi Thatcher e Reagan decidevano di cancellare ogni idea di stato sociale e di economia solidale, aprendo le proprie nazioni e poi il mondo intero a quelle politiche neo-liberiste che guardano solamente alla produttività, alle performance, alla manipolazione dei consumi, al controllo delle scelte e delle opinioni, sfruttando la globalità della rete, nonché il mercato globale della domanda e dell’offerta, per ridurre, il più possibile, l’autonomia delle persone, rinchiuderle in bolle di apparente benessere e garantirsi così, per sempre, una abnorme e criminale acquisizione di risorse, di ricchezze e di potere.
La band inglese insegue la verità, utilizzando la propria grinta, il proprio sarcasmo e la propria euforia, ma non è facile avvicinarsi a qualcosa che sfrutta ogni tua debolezza, ogni tua vulnerabilità, ogni tuo sogno e ogni tua necessità per risucchiarti nei propri meccanismi di produzione e di consumo e trasformati, di conseguenza, nell’ennesimo oggetto senz’anima da piazzare sui propri scaffali di vendita on-line, nelle pagine dei propri social, nelle storie, tutte identiche, che consumatori-dannati pubblicano sui propri profili personali. “The Breakers” vorrebbe provare, invece, a mostrare a tutti, compresa la stessa band, che noi siamo altro, che noi possiamo evadere da questa dimensione surreale e depressa, ritrovando la nostra vera essenza, nonché la primordiale energia del punk e del rock ‘n’ roll delle origini.
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