“The Other Side Of Make-Believe” è un album urbano, intriso di grattacieli e di periferie, di smog e di cemento, di foschia e di cieli plumbei, di giornate frenetiche e di notti che si riempiono, improvvisamente, di luci e di vita, lasciando che le creature dimenticate, quelle che, durante il giorno, preferiscono tenersi nascoste e passare inosservate, possano riprendersi, nuovamente, i propri spazi e restituire alla città addormentata i suoi sogni, ma anche i suoi incubi.
L’album ha una forte consistenza cinematografica e visuale, è intriso di ombre e di ricordi, di malinconia e pathos, mentre la musica viaggia, in parallelo, con tonalità/immagini che spaziano dal grigio al nero, dal nero al bianco; un bianco, però, che risulta essere sporco, vissuto e consumato, mentre i primi brani – “Toni”, “Fables” e “Into The Night” – si spingono in ogni crepa, in ogni angolo, in ogni coscienza, varcando ogni porta socchiusa della nostra intimità e penetrare laddove custodiamo le parole, i messaggi e le richieste che vorremmo inviare all’esterno, oltre quella spessa e statica corazza costruita ammassando le nostre prese di posizione, i nostri convincimenti, i nostri giudizi, le nostre sinistre ossessioni. Messaggio che restano intimi, criptici e codificati in maniera tale da poter essere recepiti solamente da coloro che sentiamo più affini, più vicini e più disponibili al vero ascolto.
Intanto l’abbandono e la solitudine acquistano materialità e risuonano tra le trame di “Something Changed”, spingendoci verso le ignote e misteriose spirali astrali di “Renegade Hearts”, in una dimensione eterea nella quale la fine coesiste con l’inizio, ma, ovviamente, questo processo non è così facile e scontato. Non lo è mai. Il rischio, infatti, è quello di restare prigionieri delle proprie fobie, delle proprie frustrazioni e delle proprie fallaci ricostruzioni della realtà, compromettendo, di conseguenza, ogni rapporto sociale, ogni affetto, ogni diversa prospettiva e facendo, quindi, il gioco di coloro che non vedono altro domani se non quello dell’isolamento, delle regole ferree, dei divieti, della diffidenza ad oltranza, delle paranoie mediatiche, delle effimere narrazioni virtuali con le quali poter narcotizzare/sodomizzare/sottomettere le masse.
Ma gli Interpol, però, non intendono arrendersi, sono consapevoli del fatto che quelle voci, le voci della città, apparentemente così distanti, soggettive e singolari, in realtà, possono trovare un accordo nella condivisione delle medesime esperienze, delle medesime percezioni, delle medesime difficoltà, delle medesime necessità e diventare, quindi, qualcosa di unico e di ispirato, qualcosa che possa fornire alle persone comuni la forza e il coraggio necessari ad invertire la direzione nella quale si è, decisamente e pericolosamente, incamminato il nostro povero mondo. Questo album, quindi, vuole essere, al di là del vulnerabile, dolente e nudo grigiore dei nostri quartieri e delle nostre convulse e torbide esistenze, sempre più vacillanti e arrabbiate, il tentativo di scoprire altri modelli e altri schemi: più onesti, più veri, più ottimisti. Un ottimismo, quello della band americana, che rimane intimo e volutamente quasi sussurrato; esso, infatti, viene rivelato con determinata lentezza, come fosse una nuova alba che sta spuntando sulla città di “Grand Hotel” in un modo completamente diverso dal recente passato, in modo più consapevole, più solidale e più inclusivo, facendo sì, finalmente, che le creature della notte, quelle più fragili e indifese, non abbiamo più il bisogno di nascondersi e scomparire nell’oblio.
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