Il secondo album di quest’anno, per Jack White, è l’occasione per tornare nel territorio delle composizioni d’indole più acustica, canzoni che rispondono alle atmosfere più oscure del primo disco con una ricerca melodica più intima, appassionata e sottile.
I suoi detrattori potrebbero lamentarsi del disordine di fondo, ma al di là di remote e preziose stelle danzanti, il suo caos è anche la migliore risposta alla monotonia dei tempi moderni. Una monotonia che annichilisce intelligenza e creatività e cancella tutte quelle idee che non sono perfettamente allineate rispetto ai modelli dominanti; di conseguenza è sempre meglio relazionarsi con qualcosa, che con sana, romantica, nostalgica e salutare ferocia, ci sproni a riconquistare gli spazi perduti, quelli nei quali i nostri pensieri potevano evolvere liberamente e soprattutto interagire tra loro.
Intanto l’album scorre in maniera fluida e sognante, tentando di rallegrare gli ascoltatori e, contemporaneamente, evocare la scintilla creativa capace di renderlo eccezionale.
Il nostro songwriter traccia i suoi sentieri lastricati di mattoncini tutti blu nel paese di Oz delle sonorità blues e folk rock, servendosi delle sue morbide e gratificanti trame di chitarra come carburante emotivo per dare vita ad una narrazione sonora fantasiosa in grado di inglobare elementi acustici di natura diversa: valzer improvvisati, irruenze psichedeliche, corposi riff blueseggianti, atmosfere da ballad zeppeliniana, influenze jazz, ritmiche si matrice latino-americana, con la consapevolezza, però, delle proprie origini garage e punkeggianti, senza mai essere eccessivo e senza mai tentare di impadronirisi, totalmente, di qualcosa che Jack sa benissimo è più corretto, onesto e utile vivere come parte di un patrimonio artistico condiviso e collettivo, in modo da restare, anche nei momenti apparentemente più imprevedibili e giocosi, fedele a quello che è il proprio DNA.
Un approccio che dovremmo abbracciare tutti: quello di essere noi stessi, senza paura di subire giudizi affrettati, taglienti e sferzanti; senza rincorrere falsi e pericolosi miti di bellezza e successo, ma liberi di scegliere la propria strada, proprio come fa il matto di Manhattan che parla con gli angeli del paradiso, cantando e bevendo whisky assieme a loro e costruendo storie che noi, presi dalle nostre frenetiche esistenze, probabilmente, non ascolteremo mai. Dunque, perché non cambiare? Perchè non lasciare che un tornado di sentimenti, sogni e passioni sollevi le nostre comode, statiche e iper-tecnologiche casette e le porti in un mondo nuovo?
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