Il virus non ha contagiato solamente le persone, ma anche la musica, persino quella più alternative e meno main-stream, dando vita a diverse esperienze creative – non sempre originali, non sempre veritiere, non sempre innovative, non sempre spontanee – che potessero esorcizzare i sentimenti negativi connessi all’isolamento forzato e alle chiusure obbligate e fornirci qualcosa che fosse in grado, almeno in parte, di alleviare l’ansia, lo stress e la depressione che stavano, letteralmente, consumando le nostre menti e le nostre anime. Intanto governi e politici, sempre più ottusi ed autoritari, promuovevano – anche con la assurda e ovviamente economicamente conveniente complicità di alcuni artisti – violente campagne repressive che, nel nome della sanità, facendo leva sulla paura, tendevano a dividere e frammentare la società, creando sempre nuovi nemici da colpevolizzare/combattere, consentendo, così, a politiche sovranazionali, sempre più dispotiche e autoritarie, di minare diritti e libertà che, oramai, davamo per certe, ovvie e scontate.
L’alienazione divenne una fondamentale necessità; la solitudine fu spacciata come unica e possibile salvezza; mentre i lockdown scandivano esistenze vuote, giorni tutti uguali, comportamenti morbosi, atroci faide casalinghe, pensieri maniacali che trovano il loro sfogo in un mondo virtuale – quello della rete – sempre più corrotto, meschino, ipocrita e cattivo. In questa dimensione caotica, ostile e riluttante, la band slovacca è riuscita a dare una accattivante consistenza sonora, di matrice shoegaze e post-punk, alle nubi maligne che oscuravano il loro e anche il nostro cielo. I boschi e il disordine amorevole della natura, le ritmiche taglienti e soprattutto uno scarno e spigoloso noise-rock, nonché le estranianti e riflessive trame dei synth, divennero la vera salvezza dello spirito e del corpo. Un rumore collettivo elevato a catarsi emotiva condivisa, in modo da rioccupare gli spazi che demoni interiori ed esteriori ci avevano portato via e dare, nuovamente, vigore alle proprie percezioni fisiche, alla propria struggente malinconia, al proprio impellente, destabilizzante, paranoico, nevrotico, ma essenziale romanticismo.
Sono questi sentimenti e questi stati d’animo che ritroviamo nei sette brani di “Present Sense Impression”, trenta minuti di schizzi, pennellate e melodie lisergiche e punkeggianti che, come una boccata d’ossigeno, ci permettono di tornare a respirare a pieni polmoni, di correre, di saltare, di sentire, di abbracciarci, di rendere corale la nostra quotidianità, permettendoci di scappare da quegli edifici chiusi e da quelle prigioni cibernetiche che ci rendono, solamente, più fragili, più malati, più inutili (e quindi più manipolabili).
Comments are closed.