Un baratro di suoni dolenti ed angosciosi è così che si manifesta, in un primo ascolto, il nuovo album degli OvO. Un precipizio oscuro, concepito attraverso due diverse abissali narrazioni musicali, “La Morte Muore” e “Distillati Di Tenebre”, che non è solamente un’entità estrema ed estranea, ma è anche parte di noi stessi. Questa voragine malata è, infatti, anche una crepa nella nostra corazza di apparenze e di superficialità, una ferita vorace che attrae, sminuzza e riduce a brandelli tutto ciò che crediamo ci possa far vivere meglio, tutte le meschine falsità e le fugaci sensazioni materiali con le quali pensiamo di poter riempiere il mostruoso vuoto – le Tenebre – che vivono, crescono e si rafforzano nel nostro inconscio.
La febbre nera di Lovecraft scivola, attraversando le trame del disco, nel nostro grigiore quotidiano, riportando in superficie le paure e le emozioni ancestrali, quelle più selvagge, violente e brutali, che, adesso, assumono la consistenza di beat profondi, di sonorità sludge e doom metal, di atmosfere post-apocalittiche, nelle quali una voce eterea e spettrale diventa il prezioso appiglio di salvezza, perché ogni malattia, anche la più orribile, può avere una cura.
Una cura che, ovviamente, non è mai gratuita, ma richiede dei passaggi fondamentali: l’accettazione del male, la consapevolezza dei propri limiti, la necessità – attraverso riti collettivi – di riacquistare la forza necessaria a respingere la rabbia, la disperazione, la follia e tutti quei demoni che si nutrono della nostra carne e del nostro spirito. Questi atti solidali e collegiali assumono la forma di tetre nenie black metal, di ritmiche forsennate, di voci malevoli, di rumori industriali, il cui scopo è renderci partecipi dell’ignoto che ci circonda e ci pervade, ma che, allo stesso tempo, ci rende così simili da poter affrontare assieme il percorso di battaglie che si aprono dinanzi ai nostri occhi, senza né trasformarsi in vittime sacrificali, né ergersi ad eroi divini ed invincibili, ma soprattutto senza disprezzare e rinunciare a quelle debolezze e quei sentimenti che ci rendono umani, consentendoci così di guardare, ben oltre, ad ogni morte.
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