Direzioni dissonanti, intrise di un’elettronica ossessiva, ombrosa e itinerante, che risuonano, come se fossero un antico rito magico, nelle nostre coscienze sopite e stagnanti, cristallizzate in quelle che sono le loro statiche e convenzionali esistenze, ricordandoci tutto quello che saremmo potuti diventare e che, invece, abbiamo rinunciato ad essere. Perché? Perché abbiamo preferito una comoda vita fatta di apparenze, sbarazzandoci, per sempre, di tutto ciò ci facesse apparire troppo fragili, troppo sbagliati, troppo buffi, troppo divertenti, troppo strani o troppo diversi, in un’unica parola veri.
Bebawinigi è una creatura che brama corpi, ma non perché desidera sedurli, violarli, controllarli o manipolarmi, ma perché desidera liberarli, spronandoli verso quella naturalità consistente che essi hanno abbandonato e ritrovandosi, di conseguenza, lei stessa meno sola nell’affrontare questo cammino stupefacente che, in fondo, ci accomuna e ci rende fratelli e sorelle, qualsiasi siano i luoghi o i tempi ai quali decidiamo di appartenere, qualsiasi siano le tradizioni, le culture, le divinità, le filosofie, le lingue, le usanze, i pianeti attorno ai quali decidiamo orbitare.
Un percorso aperto dalle ritmiche industriali di “Ayahoo!”, dalle sue irriverenti e taglienti percussioni che ci conducono nel reame provocante, morbido e sensuale di “Mr. Fat” nel quale le sonorità new wave di riferimento ci rammentano che nessuno è vecchio, che nulla è sorpassato, che niente è scontato e che tutti, se lo vogliamo, possiamo aggrapparci alle trame di “Go Back” e fuggire via, fuggire altrove. I loop si arricchiscono di elementi eterogenei, di trame di violoncello, di rumori metallici, di voci infantili, di linee dolenti, di ritornelli accattivanti, di melodie nostalgiche, di ariose armonie spaziali. Ed è così che ci ritroviamo nei meandri misteriosi e inesplorati di “Space”, viaggiatori senza meta erriamo e ritorniamo di nuovo bambini, riacquistando il sapore della gioia, della conoscenza, dello stupore.
Sapori ai quali si contrappongono la ferocia e la violenza dei mostri di “The Call Of Deep”, i quali, con le loro trame cupe e distorte, rappresentano il lato oscuro delle nostre scelte, delle nostre azioni, delle nostre fobie e soprattutto delle nostre rinunce: ogni volta, infatti, che ci voltiamo, che preferiamo delegare, che non prestiamo la dovuta attenzione, uomini abietti e brutali danno inizio ad un conflitto. “Let The Game” non fa altro che metterci in guardia, ricordandoci che nessuna conquista sociale, civile, economica o politica del passato è certa e scontata, ma esse vanno sempre difese, valorizzate, annaffiate.
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