Quello che abbiamo attorno non ci piace ed allora, pur di cambiarlo, preferiamo vendere l’anima a chi ci costruisce attorno un mondo a nostro piacimento; un mondo artificiale dal quale lasciare fuori tutte le stronzate, l’aggressività, il cibo spazzatura, le cadute, le botte, gli schianti, le esistenze precarie e tutte le innumerevoli grandi e piccole spirali autoritarie che sodomizzano, tagliuzzano, martellano, sbriciolano, disintegrano, quotidianamente, la nostra dignità. Ed oggi, nel 2022, ben trent’anni dopo il fatidico 1992, tutto ciò è ancora più semplice e naturale, grazie alle svariate alternative social offerteci dalla rete: colesterolo virtuale che si accumula nelle nostre vene, impedendoci di avere una visione chiara, critica, realistica e soprattutto umana della realtà nella quale siamo, volenti o nolenti, immersi.
Il vero nemico è il compromesso; il compromesso che, per fini assolutamente individuali e materialistici, ci conduce verso il conformismo e verso l’omologazione a modelli sociali, economici e politici che sappiamo benissimo essere ingiusti e basati solamente sullo sfruttamento dei più poveri e dei più deboli, affinché una minoranza di persone nel mondo, la così detta élite, possano accaparrarsi tutte le ricchezze e utilizzarle a proprio esclusivo piacimento, facendo credere alle persone comuni che i propri problemi derivano dai migranti, dalle minoranze, dai disoccupati, dai percettori di sussidi, dagli esclusi dal sistema produttivo e consumistico globale. E così, grazie alla rete mediatica delle informazioni, che è prona agli interessi dei più ricchi e dei più potenti, questi nostri veri nemici non fanno che amplificare e diffondere un pericoloso germe di ignoranza, ipocrisia e bugie che abbruttisce e divide i popoli, trasformandoli, di conseguenza, da cittadini liberi a sudditi sottomessi.
C’è luce in questa oscurità? Noi tutti sentiamo il bisogno di creare qualcosa di luminoso nelle nostre vite, qualcosa che ci offra speranza, soprattutto se ci rapportiamo alla nostra inevitabile mortalità, allo scorrere indifferente del tempo, a tutti quegli istinti e quei sentimenti negativi che, se non adeguatamente bilanciati, possono condurci verso l’alienazione più estrema, dalla quale il passo verso l’auto-distruzione e il suicidio può essere più breve di quanto possiamo immaginare. Nel suo percorso di ricerca spirituale, nella sua capacità di affrontare la nostalgia dei tempi più puri ed infantili, guardando, però, sempre dinanzi a noi, questo disco, con le sue melodie e il suo fiume di parole, rappresenta il punto luminoso nel quale ritrovarci assieme e prendere coscienza della nostra forza.
Intanto il governo Bush sta giungendo al tramonto, ma nessuno piò credere davvero di aver davvero sconfitto le eminenze oscure e fascistoidi che agiscono nell’ombra. E se “Youth Against Fascism”, all’epoca, poteva apparire solamente la canzone di un album che tentava di trovare una connessione tra la poetica introspettiva del grunge, il noise-rock e i movimenti pop più estrosi e periferici, oggi possiamo affermare che si trattava di un vero e proprio manifesto politico, un vero e proprio inno pacifista e non una semplice e vana presa di posizione radical-chic, buona solo per prendere voti e poi starsene tranquillamente a casa propria, con gli occhi bassi sullo schermo luminoso del proprio smartphone, mentre altri, da qualche parte, si ammazzano, si odiano, si combattono, si fottono a vicenda, affinché nuovi e pericolosi fascisti, quelli dei palazzi e dei governi, possano, alla fine, condurre i loro sporchi affari. “It’s the song I hate”, questa è la canzone che odio, la canzone che odiamo.
Il grunge seppe mettere in evidenza la frattura esistente nella società uscita a pezzi dagli anni Ottanta, mentre, nel frattempo, grandi imperi del male, come quello sovietico, si sgretolavano e nuovi imperi del male sorgevano in un mondo che stava compiendo il proprio fatidico balzo tecnologico verso la globalizzazione digitale, tentando di cancellare ogni perplessità, ogni disagio, ogni dubbio, ogni domanda, ogni possibile critica. La dimensione emotiva ed esistenziale del cambiamento divenne, ben presto, un aspetto marginale e il blues-punk ritornò, con forza e in modo naturale, ad essere la sua voce. Una voce che rivendicava amore ed attenzioni, che rivendicava un ruolo sociale, che denunciava i propri aguzzini ed i propri carnefici, tentando di mettere in musica tutto lo sconforto, il fallimento, la rabbia e la delusione di una generazione perduta per tutte le violenze subite, ma tentando, comunque, di trovare la strada utile a ricomporre la frattura originaria, a riavvicinare le parti, a rendere meno precaria e solitaria la vita sotto uno dei tanti nuovi imperi.
Ma, alla fine, è come giocarsi tutto e rendersi conto d’aver perso, non perché non si è fatto un buon lavoro, ma semplicemente perché nessuno se n’è davvero accorto, erano tutti in fila a chiedere il proprio osso da rosicchiare. E visto che lo spettacolo, come sempre accade, deve continuare, non ti rimane che tramutare lo scoramento in un appiglio, in quel dolce oblio che, col senno di poi, è la vera essenza di un movimento musicale che, all’inizio degli anni Novanta, sembrava poter cambiare il mondo intero e probabilmente avrebbe anche potuto provarci, se solo non fossero arrivati i padroni con le loro case discografiche, le loro industrie, le loro mode, le loro radio, le loro televisioni, le loro immense catene commerciali, a rendere ogni cosa solamente un’etichetta, uno slogan, un gadget da vendere a dei poveri idioti.
Idioti che si ritrovano ad affogare in un mare di alcool, di litigi e di melodie orecchiabili, anticipando l’hype brit-pop e rinnovando quelle che sono le trame sonore shoegaze, lasciando che le chitarre facciano tutto il resto e ricordandoci che, tutto sommato, siamo animali in cerca di calore ed attenzioni. Ed una volta che le troviamo, possiamo anche accontentarci delle nostre monotone esistenze da Beatles distorti che si emozionano dinanzi ad uno stupendo e inquietante cielo plumbeo. Sì, tanto, prima o poi, ci toglieranno di mezzo, ma possiamo fare in modo che accada in maniera iperbolica, grandiosa, drammaticamente sconvolgente, proprio come se fossimo Gesù Cristo, proprio come se fossimo JFK: “I want to die just like Jesus Christ / I want to die justo like JFK”. Quale migliore rivincita rispetto alla venerazione?
E se i Sonic Youth avevano decretato la rottura definitiva del punk, mentre il grunge non era stato che un innocuo vagito, diventando, alla fine, solamente un’etichetta di comodo, proprio come, dall’altro lato dell’oceano, avveniva con il brit-pop, dove sarebbero andate a finire la passione e il rifiuto? Esisteva una casa oltre Londra e Seattle? La risposta fu un fiume in piena di riff grezzi, rabbiosi e dolenti, espressione tanto del grunge, quanto dell’hard-rock più cupo, dello stoner-rock più acido e dello sludge-metal più possente; essi diedero vita ad un album capace di brillare di buio in quella oscurità, complessa e tormentata, che considerava casa propria, al di là di qualsiasi banale coordinata geografica, un luogo che risuonava, in ogni suo angolo, di sofferenza, di abuso, di dipendenza, di emarginazione, di diniego, di negazione. Un rehab musicale nel quale echeggiano, ancora oggi, tutte le nostre debolezze; il buco nel quale finiscono i nostri sentimenti quando non siamo più in grado di viverli in maniera positiva, ma si trasformano solamente in una condanna per noi e per chi ci è vicino; un buco, però, che non è mai così profondo da non permettere alle note della chitarra acustica di “Down In A Hole” di trovarci e offrirci una speranza, la speranza di ali per poter volare via.
Volare dove? Verso il passato o verso il futuro? Verso la città o verso il deserto? Verso il blues più magmatico ed incandescente? Verso un energico e rumoroso muro psichedelico? Verso i meandri inesplorati delle nostre coscienze cosmiche? Verso una esplosiva, analogica e brutale purezza ancestrale? Verso una dimensione alternativa nella quale puoi incrociare il tuo cammino con quello di Jimi Hendrix? Di John Bonham? Di Jerry Garcia? Di Syd Barrett? Ma come recitano le loro stesse parole, non si tratta di un banale ritorno a ciò che è stato, non è il frutto di una strana seduta spiritica, non sono solamente ombre e fantasmi, ma si tratta di un cerchio che si chiude, ancora una volta, per l’eternità, di un dio-serpente che si nutre della nostra rabbia e del nostro dolore, del nostro odio e del nostro tempo, ma mai della nostra sottomissione.
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