C’è brusio, agitazione, il desiderio di ritrovare e riprovare percezioni e sentimenti che, per troppo tempo, sono restati al chiuso delle nostre emozioni sonore casalinghe, nel nome della reclusione virale e di una politica che ha utilizzato la crisi sanitaria per la propria sopravvivenza. Ma ora, in una dolce serata novembrina in terra d’Irpinia, gli Stereolab riportano queste sensazioni in superficie e lo fanno tramite il loro prezioso e singolare mix di musicalità elettroniche, avanguardiste, pop e lunari, riuscendo ad accogliere, attraverso il loro protettivo ed accattivante immaginario lo-fi, i vecchi e i nuovi fan, i quali sono invitati, immediatamente, da Lætitia Sadier, ad avvicinarsi al palco, ad occupare quegli spazi che, per troppo tempo, sono rimasti dolorosamente vuoti, così da trasmettere e recepire tutta l’energia e la positività che suscita un concerto.
Non c’è bisogno di avere una macchina del tempo, è sufficiente poter contare su album come “Transient Random-Noise Bursts With Announcements”, “Switched On” o “Dots And Loops”, sulle loro chitarre nitide, sulle loro melodie verbali, sull’inconfondibile atmosfera evocata dai loro sintetizzatori. Trame ipnotiche e meditative, capaci di richiamare tanto la sensualità radiofonica della musica francese, quanto le divagazioni rumoriste dei Velvet Underground, andando a costruire una dimensione astrale ed atemporale che risucchia il Partenio di Avellino, portando tutti noi alla deriva in un dolce ed elettrizzante fluire di visioni musicali jazz ed elettroniche, intrise del sapore nostalgico e trionfante dell’indie-rock degli anni Novanta, quello dei Pixies, dei Pavement o dei Sonic Youth, ovvero di un mondo che, rispetto a quello attuale, era, certamente, più ingenuo, più fiducioso, più puro, più propenso a credere che il progresso e le nuove tecnologie, ad iniziare dalla rete globale delle informazioni, potessero, davvero, rendere migliori le vite delle persone comuni, contribuendo così a quel fatidico benessere collettivo, materiale e spirituale, che, invece, purtroppo, non è mai arrivato.
Anzi la frattura nella quale scivolano le nostre esistenze è diventata sempre più profonda e dolorosa, una frattura che gli Stereolab tentano di riempire, per una sera, con la loro musica, evocando una beatitudine che, ahimè, le nostre reali e quotidiane esperienze di vita non conoscono molto spesso o, addirittura, che le creature più sfortunate e marginali, quelle alle quali nessuno è propenso offrire una possibilità o un approdo, non conoscono affatto. E così la band avvolge la sala con le sue divagazioni sonore che guardano agli anni Sessanta, alle ritmiche sud-americane, alla musica cosmica, alle sue epopee fantasiose, eroiche ed avventurose, alla new wave più elettrica, alla bossa-nova, alla disco, alle sinfonie psichedeliche che trasformano i loro dischi in delle vere e proprie navicelle spaziali, con le quali perdersi nei misteriosi meandri del nostro inconscio e vagare, tutti assieme, da un pianeta all’altro. Pianeti che si chiamano “Refractions in the Plastic Pulse”, “Pack Yr Romantic Mind”, “Super-Electric”, “French Disko” .
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