Il termine “punk”, con le sue diverse varianti, dal proto-punk al post-punk, è un termine del quale, oggi, si abusa davvero troppo ed è innegabile che esso sia entrato a far parte dell’ortodossia del rock. Vi fu un tempo, però, dopo l’esplosivo fragore mediatico raggiunto nel ’77, nel quale le punk band della seconda ondata, non solo quelle più famose e più celebrate, compivano le loro quotidiane e bellicose scorribande contro un perverso sistema politico, sociale ed economico che, ai loro occhi, era perfettamente rappresentato dai giganti obsoleti del progressive rock e dell’hard-rock, quelli che avevano dominato, in maniera incontrastata, tutti gli anni Settanta, gli stadi e i grandi festival e raduni rock e che, ora, di conseguenza, venivano identificati come espressione concreta e diretta del male, diventando così l’obiettivo delle invettive, delle critiche e del disprezzo punk.
Questa compilation di ben 75 pezzi, inclusi in tre diversi CD, chiamata, appunto, “1980: Brand New Rage”, oltre ad essere una accattivante e divertente testimonianza sonora dell’ondata punk successiva al ’77, quella capace di far sentire la sua voce anche durante gli anni Ottanta della disco-music, del pop sintetico, delle riviste patinate e delle radio commerciali, contiene anche delle vere e proprie gemme musicali: una versione della barrettiana “Gigolo Aunt” eseguita dai Vibrators; il punk cattivo, brutale, supersonico e poco incline al compromesso dei Discharge o degli Exploited; quello gotico e vampiresco dei Damned; quello elettrico e tagliente degli U.K. Subs; le divagazioni di matrice new wave di Adam & The Ants; l’energia ultras dei Cockney Rejects; gli inni di rivendicazione sociale degli Sham 69 o degli Stiff Little Fingers; il liberatorio “Knockin’ on Heaven’s door” urlato, alla fine del loro brano, dai The Boys.
Ma nessuno aprirà mai le porterà del paradiso ad una punk band, soprattutto se viene percepita come un elemento radicale, disturbante ed estremo rispetto quelle che sono le convenzioni e i compromessi, abitualmente, accettati dalle persone comuni.
Visto che il punk più conosciuto e considerato canonico ed istituzionale è quello di “Never Mind The Bollocks” dei Sex Pistols, quello dell’Anarchy Tour, quello capace, alla fine, di acquisire una coscienza politica costruttiva e positiva, grazie anche alle aperture e agli innesti reggae-dub-rockabilly eseguiti, successivamente, dai Clash, in molti pensano che il movimento durò solamente un paio d’anni e lo fanno morire, assieme a Sid Vicious, nel 1979, mentre usciva l’eclettico, eterogeneo e leggendario “London Calling”. In realtà, invece, il punk non morirà mai, il punk si stava, semplicemente, spostando ai margini dello show-business; stava uscendo dai radar del sistema mediatico di stampo più capitalista; stava diventando, grazie alla sua aggressiva variante hardcore, più rude, più crudo e più brutale; stava lasciando Londra per ritrovare la propria peculiare scena in ogni periferia suburbana, in ogni ghetto metropolitano, in ogni club sotterraneo, in ogni inferno di cemento, asfalto e metallo, in ogni luogo nel quale il bene scendeva a compromessi col male e, puntualmente, perdeva e rinunciava alla purezza della propria anima.
Se nel 1976 il punk appariva come qualcosa di straordinariamente moderno e all’avanguardia, nel 1980 esso veniva già dipinto, dal sistema mainstream, come qualcosa di sorpassato, mentre il grande pubblico sembrava trovarsi maggiormente a proprio agio con le sonorità new wave, nelle quali, comunque, i punk riuscirono a portare un fondamentale contributo in termini di energia, di ritmica e di critica sociale, sino ad arrivare ai nostri giorni e trasformarsi in qualcosa in grado di inglobare sonorità e sentimenti diversi: dal dubstep all’elettronica, dallo spoken word alla psichedelia sperimentale, dal rap allo spoken word, dall’indie-rock al noise-rock, continuando a sfidare quelli che sono i grandi poteri di questo mondo globalizzato.
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