Un disco lucido, nonostante sia stato concepito durante l’isolamento forzato dovuto alla pandemia, nel quale la luce benevola della maternità, che splende sul prossimo e imminente futuro, si contrappone, in un certo senso, alle oscure inquietudini connesse al lockdown, che, oltre ad alterare e abbruttire la nostra quotidianità, ha anche gettato un’ombra minacciosa su tutti coloro che vivevano di arte, di musica, di teatro, di tutto ciò che richiedesse, necessariamente e fortunatamente, un contatto spirituale, ma anche fisico, reale, concreto con il pubblico.
Torneremo a quelle vite che consideravamo normali? Recupereremo ogni singolo centimetro che abbiamo perduto? Ce lo lasceranno fare? O saremo che noi che, in una sovrapposizione di fobie, di sfiducia e dei peggiori istinti reazionari, porremo nuovi limiti, nuovi obblighi, nuovi confini, nuovi divieti, laddove, un tempo, esistevano spazi comuni di dialogo e di interazione?
Le Big Moon rispondono a questi interrogativi attraverso la loro musica che, in questo nuovo album, subisce l’influenza positiva di una nuova creatura che viene al mondo, della sua innocenza e della sua purezza; tutto ciò permette alla band inglese di avere un atteggiamento costruttivo, di stringere un rapporto di amicizia ancora più forte e di scegliere come unica possibile risposta alle molteplici domande, che avvolgono e scombussolano le nostre esistenze incerte e precarie, quella dell’amore incondizionato.
Come è, appunto, l’amore tra una madre e il suo bambino, un amore che viene cosparso di armonie indie-pop, di morbide trame sintetiche, ma anche di ritmiche schiette e dirette che non dimenticano il grigiore e il vuoto dei giorni di isolamento e di parole che seguono una linea sonora che vira verso una dimensione più cruda. Una dimensione pervasa da atmosfere indie-rock realiste e tenaci che rendono il disco più vero, più obiettivo, più intricato e quindi più meritevole di altri ascolti, soprattutto quando cerchiamo una musica che possa accompagnare lo scorrere delle nostre emozioni, il cui spettro resta, comunque, notevolmente ampio e può passare dalla meditazione all’euforia, dall’ansia alla sofferenza, senza che ci sia, necessariamente, il bisogno di fornire una spiegazione, di cercare una colpa o un colpevole. A volte siamo semplicemente noi, nella nostra confusa bellezza, a voler trovare un luogo speciale, un luogo che possa essere ovunque e che, quindi, può essere esattamente qui.
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