Sperimentare continuamente, andare avanti, cercare nuove dimensioni sonore nei meandri più oscuri ed inesplorati dell’universo e attraverso misteriosi buchi neri ritrovarsi in leggendarie epoche psichedeliche, prog-rock ed heavy metal del passato. Epoche mitiche dalle quali ripartire, seguendo un uroboro cosmico che rappresenta il motore divino dello stesso universo. Un viaggio, dunque, che non può mai arrestarsi e che, nonostante siano ormai trascorsi trent’anni, sarà sempre basato sulla conoscenza, sulla crescita, sulla condivisione musicale, disco dopo disco, di nuove idee, di nuovi spunti, di nuove e vecchie sonorità che si innestano l’una nell’altra, trascendendo quello che era il loro seme primordiale e assumendo una consistenza diversa.
Rock ‘n’ roll, stoner rock, elettricità shoegaze, ritmiche metalliche, sfocature noise-rock, derive e divagazioni sintetiche, i Boris assemblano e de-assemblano stratificazioni sonore eterogenee; è questa la loro missione: aiutarci a comprendere che nella musica, ma anche e soprattutto nella vita, non esistono definizioni semplici, non esistono compartimenti stagni isolati, non esistono diversità tali da non poter essere studiate, apprezzate, comprese ed amalgamate in qualcosa di nuovo ed interessante.
“Heavy Rocks” tocca con mano il proto-punk ancestrale dei primi anni Settanta, lo scova nel magma incandescente nascosto nel cuore della Terra e lo getta lontano, nello spazio profondo, attendendo, con ansia, la sua rumorosa e accattivante deflagrazione. Qualcosa che ci rammenta band come gli Stooges, i Who, i Motörhead o gli MC5, la loro brutale velocità, una vita randagia ed “on the road” e canzoni che non hanno alcun timore di guardare nell’abisso e restarne segnate. Energia selvaggia alla quale i Boris offrono, sull’altare del rock, la loro libera interpretazione. Lo fanno attraverso passaggi ipnotici e ripetitivi e altri che, invece, sono pervasi da furia demoniaca di stampo industrial-rock. Lo fanno tramite il loro metal futurista, utilizzando elementi sonori dissonanti ed estranei, maniacali ed alieni, che fanno sì che il disco brilli di luce cupa, una luce penetrante e materiale che è fatta di follia, di solitudine e di rabbia.
“Ghostly Imagination” è la sintesi concreta della loro violenza musicale, “Nosferatou” è l’inno dei mondi infernali, mentre “(not) Last Song”, che ha la consistenza di una ballata minimalista e ossessiva, è il suono della follia umana. Questi tre brani costituiscono la colonna vertebrale di un album fragoroso che era partito con un trio di canzoni iniziali assolutamente familiari e giocose e si ritrova, invece, a fare i conti con una tempesta di distorsioni, di feedback e di urla demoniache che danno voce alle forze eterne ed implacabili che governano il lato oscuro dell’esistenza.
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