L’8 Aprile del 1990 è una data fondamentale per il mondo dei media: la rete americana ABC trasmette, in anteprima, quella che possiamo considerare la prima vera serie TV della storia, “Twin Peaks”. Una serie che mescola temi horrorifici, fantastici e fantascientifici, sullo sfondo di una minuscola cittadina dello stato di Washington, nella quale personaggi strani, inquietanti e divertenti intrecciano le loro vicende e i loro incubi con quelli di creature misteriose e bizzarre che, pur non essendo di natura umana, sono parte di questo nostro stesso mondo.
Puoi trovarle su un sentiero isolato, di notte, quando anche la luna preferisce non mostrare il suo bel volto; puoi incontrarle in qualche oscuro bar di periferia o, magari, semplicemente, quando chiudi gli occhi e il dio dei sogni confonde i tuoi ricordi con tutto ciò che vive al di là dello specchio. E non è detto che sia qualcosa di benevolo e pacifico.
C’è una atmosfera cupa e angosciante, ma, allo stesso tempo, delicata ed attraente, mentre quella ragazza – una bella ragazza – va incontro al proprio agghiacciante e fatale destino. E c’è una musica che rende drammaticamente reale ogni singolo fotogramma che compare davanti ai nostri occhi; una musica che rende consistente ogni nostra percezione e travolgente ogni nostra emozione ed è la musica con la quale Angelo Badalamenti accompagna la narrazione di David Lynch.
Un’avventura allucinata che diventa via via più criptica, eccentrica, bizzarra e, per certi versi, quasi incomprensibile nella sua seconda stagione, facendo sì che la musica del compositore italo-americano assumesse il ruolo dell’appiglio certo e sicuro, della verità alla quale tener fede, nella consapevolezza che c’è sempre chi giudica senza comprendere a fondo, chi vorrebbe avere spiegazioni anche quando esse non esistono e ci si può solamente affidare ai sussurri, alle voci, ai rumori ed ai suoni della notte.
Ed i suoni di “Twin Peaks”, i suoni che David Lynch ha desiderato accompagnassero Laura Palmer e che Angelo Badalamenti ha reso vivi e pulsanti sono esattamente questo, fanno parte del contesto, sono un elemento attivo della trama, riescono a motivare, a decriptare e a rendere fruibili momenti e passaggi, dialoghi e silenzi, angoli e scenari, che, altrimenti, resterebbero confinati nel surrealismo estremista del regista americano, desideroso, anche al costo di sacrificare la trama della sua favola oscura, di contrapporsi a quella che è la mondanità, il lusso e lo sfarzo dell’America all’inizio degli anni Novanta. Su quella America agiscono, in pratica, due forze necessarie e contrastanti: quella visuale, animata da istinti omicidi e quella sonora, desiderosa, invece, di trovare l’armonia perduta, un’armonia che anche una musica dell’orrore, se concepita seguendo canoni estetici eterni e naturali, riesce a trovare e donare agli ascoltatori. Angelo Badalamenti è riuscito a trovarla ad ogni passo, riuscendo ad interpretare e fare suoi canoni musicali diversi, passando dal calore del blues al gelido rumorismo ed attraversando i territori del jazz sperimentale, della musica classica, delle colonne sonore, dell’ambient e dell’elettronica.
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