“Four Seasons Souvenir”, ovvero il triste e tagliente suono di un impero che finisce: una cruda e dolente ballad scolpita nella nostra auto-distruzione mediatica, tra aspiranti messia, spietati e malefici CEO, politici corrotti che sanno solamente mentire ed autocelebrarsi e un tramonto, malato ed infetto, che cala il sipario su un mondo devastato dalle crisi climatiche, dalle malattie e dalla fame, dai missili e dalle bombe, dalla brama di potere e da una delirante violenza che affonda le sue velenose radici nel peggio del Novecento.
Intanto le quattro stagioni dei Bromance assumono la consistenza sonora di qualcosa che si è rotto per sempre, di un canto funebre, elettrico, vibrante e darkeggiante, mentre tutt’intorno si respira il bruciante ed acre sapore della fine, dell’elettricità, dei feedback e delle distorsioni con cui “Hard Black Suit” chiude queste indegne, egoistiche e materialiste sale del commiato. Non prima, però, di aver gridato, attraverso trame sonore che scavano nel punk più abrasivo e nel rock’n’roll, puro e primordiale, delle origini, tutta la nostra rabbia, il nostro disprezzo e la nostra frustrazione per quello che non abbiamo voluto, potuto o saputo fare, un po’ perché, in fondo, ci sembrava la scelta più utile (?) e più conveniente ed un po’ perché avevamo paura di sbagliare, di essere derisi, di essere esclusi, di essere cacciati via dal salone del banchetto, dalla grande stanza in cui il potere gozzoviglia e s’abbuffa e a noi, poveri cani da guardia, umili e timorose pecorelle, non resta che attendere, con ansia, le loro mance e i loro avanzi.
I Bromance ci intrappolano nella verità, quella che fa male, tra i bassi profondi di “Twin Chicks” e i martellamenti lisergici di “Blow My Dice”, tentando di riportare a galla il nostro spirito più indomito e selvaggio, quello che è stato corrotto, ammaestrato, svenduto, narcotizzato e instupidito. Lo fanno nell’unico modo che conoscono, quello migliore, quello più liberatorio, quello più appassionato ed appassionante, cercando di abbattere, a colpi di chitarre sferzati, di ritmiche incisive, di accelerazioni frenetiche, le celle nelle quale abbiamo lasciato che ci recludessero. Abbiamo ancora una vita, almeno lo ricordate? Perché, dunque, non viverla?
Comments are closed.