Terminare l’anno, distaccandoci dalle immagini di violenza che terrorizzano il mondo, dal conflitto russo-ucraino alle proteste contro il dispotico regime fondamentalista iraniano, per parlare della divina PJ Harvey è il modo migliore per ricaricare il proprio spirito e sperare in un futuro che sia, finalmente, libero dall’arroganza, dalla prepotenza, dall’odio e dall’ingiustizia, nel quale gli uomini e le donne possano vivere in pace e possano, davvero, essere padroni delle proprie vite e delle proprie scelte, senza che brutali politiche patriarcali, misogine, reazionarie e bigotte stabiliscano quale sia il modo giusto, opportuno o corretto di comportarsi, di pensare, di mostrarsi in pubblico o di vivere i propri sentimenti e la propria intimità.
“Red Right Hand”, ultimo brano della collezione, ci rammenta, infatti, quanto infernale sia il nostro presente, un presente che, purtroppo, continuiamo a scrivere col sangue e a cui Polly Jean da la consistenza sonora di un’armonia dolente, di una voce che è, allo stesso tempo, impaurita, ma anche alla disperata ricerca della vera salvezza. Una salvezza che, rispetto alla versione originale di Nick Cave, è completamente diversa perché essa è solamente il frutto del seme dell’uomo, cioè delle nostre azioni, della nostra volontà e della nostra determinazione nel rifiutare quei facili compromessi che rendono più semplici le nostre esistenze.
Altro determinante passaggio dell’opera è quello della destrutturazione, rispetto al lavoro eseguito da Steve Albini, dell’album “Rid Of Me” del 1993, con una chitarra che mostra la sua anima blues, mente le atmosfere dei brani si immergono nella attualità ed abbracciano la bruciante tensione del grunge, tentando di dare un senso alle proprie giornate, un appiglio musicale per non sprofondare in una routine che, proprio in quei giorni lontani, ci stava trasformando in maniaci tecnologici, sempre più soli, sempre più paranoici, sempre più ignoranti.
“Why D’Ya Go To Cleveland” è, invece, il pezzo del tutto inedito, una porta spalancata sui tanti luoghi comuni e le immagini pulite che caratterizzano il grande sogno americano. Se non è orrore questo, quale può essere il vero orrore?
Trattandosi di ben 59 canzoni, collocate in tempi e luoghi differenti, è ovvio che le sonorità siano eterogenee. C’è il rock ‘n’ roll, c’è il folk cantautoriale, c’è l’anima blues, ci sono trame oscure ed altre che, invece, sono minimali, claustrofobiche ed elettriche. Si tratta, quindi, di un vero e proprio viaggio al di là dello specchio di Alice, in una dimensione che distorce le distanze spaziali e temporali, che ci avvicina a quelli che erano i nostri sogni e magari, se siamo fortunati, ci allontana da quelle che, oggi, sono le nostre paure e i nostri incubi, portando l’artista inglese e tutti noi ad affrontare le stranezze, le manie, le ossessioni, più o meno divertenti, più o meno crudeli, più o meno pericolose, più o meno innocue, che vivono nel nostro stropicciato inconscio, mentre una irruenta dylaniana e dilaniata “Highway ’61 Revisited” accompagna i nostri passi e ci permette di uscire dal labirinto nel quale ci eravamo persi.
La questione ora è, però, un’altra, come usciremo da questo labirinto? Saremo più consapevoli o, invece, ci alieneremo del tutto dalla realtà, rifugiandoci in un mondo virtuale e bidimensionale ove esistono solamente il bianco e il nero, il lecito e l’illecito, il vietato e il consentito, lo schiavo ed il padrone?
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