Melodie distorte, ritmiche alienanti, un cuore rumoroso e pulsante di sonorità industriali e proto-punk attorno al quale Martin Rev e Alan Vega costruivano la loro narrazione tagliente, cruda e minacciosa della realtà. Qualcosa che riusciva a raggiungere il proprio apice emotivo duranti gli spettacoli dal vivo, quando non esistevano più barriere spazio-temporali tra i Suicide e il proprio pubblico, a differenza di quanto accadeva nella limitata e artificiale dimensione bidimensionale di un disco di vinile.
Il duo americano fu, infatti, fondamentale per trovare la strada di quel mondo nel quale il punk incrociava il proprio cammino con le trame incalzanti e vibranti dei synth, spingendosi verso orizzonti elettronici minimali che anticipavano l’incisività devastante della techno, mentre, nel frattempo, i battiti cardiaci minacciosi, violenti e malati di un giovane operaio, Frankie Teardrop, accompagnavano il distruttivo processo di trasformazione che avrebbero condotto la sua impotenza verso la disperazione, la sua disperazione verso la rabbia, la sua rabbia verso la follia; una follia che, infine, lo avrebbe portato ad ammazzare i propri cari. Ed i Suicide, ricorrendo anche a melodie dolci e decadenti, oscure e maniacali, anche attraverso brani apparentemente attraenti e orecchiabili, proponevano la verità di un mondo ostile popolato dagli uomini grigi descritti da Thomas Stearns Eliot: uomini vuoti, uomini che, come dei miseri fantocci di paglia, sono immobilizzati dalla paura e fingono di avere impegni, attività o interessi cui aggrapparsi, costruendo, di conseguenza, una società, sempre più perversa ed intollerante, che schiaccia tutti coloro che si sentono soli, oppressi e che non ce la fanno a tirare avanti.
I Suicide spingono la futura new wave nella direzione delle sonorità noise ed industriali, sono l’anello di congiunzione tra i The Velvet Underground e i Sonic Youth, ma, allo stesso tempo, sono tutt’altro: un canto urbano angoscioso e spettrale che si muove tra le periferie e i labirinti di organismi-città che, nonostante le conquiste tecnologiche, nonostante la loro grandezza, la loro operosità e il loro benessere, non fanno altro che spingerci verso uno stato di morte apparente. Le ombre di “Ghost Rider”, i dubbi atroci di “Rocket U.S.A.”, le armonie funebri di “Cheree”, il disarmante senso di abbandono che pervade “Girl”, il senso di resa estrema di “Che”, sono le diverse prospettive con le quali i Suicide anticipano un futuro di zombi ben vestiti, puliti, paffuti, bramosi di diavolerie elettroniche e perennemente affaccendati che, così facendo, fingono di non vedere il fiume, tumultuoso e imprevedibile, che scorre dinanzi a loro.
Sfidarne la corrente impetuosa, abbracciarne le acque gelide, vincere i propri limiti fisici e psicologici, è ciò che ci permetterebbe di risvegliarci e di sfuggire al peso insopportabile di una società che ci dice che siamo liberi, ma che, in realtà, ci sottopone, da sempre, alle medesime regole di natura economica, politica o religiosa, con le quali non fa altro che manipolarci e controllarci, obbligandoci a girare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, esistenza dopo esistenza, attorno allo stesso fico d’India di paura e di insicurezza che ci impedisce di vivere ed essere noi stessi.
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