“Almanac Behind”, probabilmente, era iniziato con un obiettivo diverso e cioè quello di ritrovare quel sano e positivo legame che dovrebbe esistere tra gli esseri umani e la natura, ma poi, lo stesso processo creativo seguito da Daniel Bachman nella natia Virginia – ovvero quello delle registrazioni dirette, sul campo, di vari eventi climatici – ha mostrato come quel legame si fosse pericolosamente inclinato, facendo sì che, all’interno dell’album, si insinuassero un profondo senso di smarrimento e una inquietante sfiducia nei confronti delle istituzioni mondiali che appaiono, purtroppo, incapaci di agire sul cambiamento climatico.
Il disco da voce, infatti, ad una natura malata il cui grido di dolore si trasforma, sempre più spesso, in improvvise catastrofi: inondazioni, alluvioni, frane, incendi, siccità, valanghe, inquinamento. Tutto ciò carica di drammatica tensione i singoli brani, mentre la voce del vento, della grandine o della pioggia si intrecciano con le interferenze elettriche di un messaggio radio che annuncia l’ennesimo disastro e la conseguente conta dei danni materiali e delle perdite umane. Intanto la chitarra slide vorrebbe ricostruire l’equilibrio perduto, magari evocando i sentimenti migliori che albergano nella nostra intimità, ma ciò non può bastare, è necessario compiere delle rinunce, abbandonare quello stile di vita che le politiche di consumo di stampo neo-liberista hanno imposto ovunque nel mondo, ritornando a sistemi di produzione e sfruttamento delle risorse del pianeta più sostenibili ed eco-compatibili, dirottando, nel frattempo, la ricerca tecnologica e scientifica verso energie pulite e soprattutto non invasive.
Saremo in grado di rinunciare a tutte quelle comodità che, oggi, ci sembrano dovute? E, soprattutto, riusciremo a svincolarci dalla pressione esercitata dalle lobby di potere che determinano le politiche e le scelte dei governi?
Se da un lato le atmosfere meditative di Daniel Bachman sembrano volerci confortare, dall’altro sembrano essere solamente delle tregue, sempre più brevi, sempre più precarie, tra un disastro e l’altro. Ed intanto gli alberi muoiono, affoghiamo nell’anidride carbonica, i ghiacciai si sciolgono, i letti dei fiumi diventano duri ed aridi, come i cuori delle tante, troppe persone che sono ancora insensibili dinanzi a queste immagini, convinte di essere al sicuro nelle proprie case tecnologiche, nelle proprie città, nella loro parte agiata di mondo, incapaci di comprendere che stanno distruggendo, sempre più rapidamente, il futuro dei loro stessi figli e delle prossime generazioni, negando loro la possibilità concreta di poter condurre una vita serena e felice.
Se il pianeta è malato, infatti, lo siamo tutti. Come potremo pensare di sopravvivere in un mondo nel quale l’aria, l’acqua e la terra sono avvelenate e contaminate? “Recalibration/Normalization” tenta, invano, di rassicurarci, finché non compare un ronzio elettrico in bassa frequenza che va a sovrapporsi ai campanelli eolici ascoltati all’inizio dell’album, a chiudere un loop che ci rammenta che il tempo a nostra disposizione sta terminando: la Terra è la nostra casa ed è finito il tempo delle parole, occorrono azioni concrete, azioni in grado di fare la differenza.
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