In questi giorni, su YouTube, è stato pubblicato un video che mostra un concerto degli Alice In Chains del 1996 nel quale è presente anche l’indimenticabile frontman Layne Staley. Nel video la band esegue “Again” e “God Am”, due brani estratti dal loro omonimo terzo album. Ormai sono passati anni dalla tragica scomparsa dell’artista americano, avvenuta il 5 aprile del 2002 e l’uomo è ormai diventato un’icona decadente e maledetta. Molti, però, ignorano il fatto che Layne fosse una persona spiritosa; egli, infatti, a differenza di quanto è stato scritto, esaltando ed amplificando solamente il suo lato estremo, quello più tossico e tormentato, sapeva essere anche molto divertente, ironico, a volte sarcastico, ma mai cattivo, almeno non gratuitamente cattivo.
Forse, come altri di quella generazione, sentiva di esser parte di un processo unico ed irripetibile ed avrebbe voluto lasciare il suo inequivocabile e determinante segno. E che questo abbia potuto generare una pressione eccessiva potrebbe anche essere, in parte, vero, ma farne un assioma per accomunare narrazioni artistiche ed umane profondamente diverse tra loro è una enorme cazzata, buona soprattutto per vendere film, t-shirt, dischi, poster e giornali e per alimentare, di conseguenza, una mitologia di stampo fumettistico che non ha nulla a che vedere con la realtà dei fatti, con le persone coinvolte e soprattutto con le loro idee, i loro sentimenti, le loro percezioni e i loro stati d’animo.
“Can I be as my God am?”
Il grunge metallico degli Alice In Chains, con le sue sfumature doom e sludge, le sue incursioni acustiche ed evocative, il suo cuore malinconico intriso di hard-rock e di trame sinistre, resterà, eternamente, attuale. Layne Staley ha saputo dare una consistenza sonora magistrale a quella lotta interiore tra l’ossessione dovuta al fatto di dipendere da qualcosa di estraneo e distruttivo e la consapevolezza di doversene liberare. Una tensione che, al di là della sua vicenda personale, è perfettamente in linea con il nostro presente, con un sistema che tende, con i suoi modelli omologanti, a schiacciare le persone e la necessità, per sentirsi felici, di poter esprimere quei sentimenti e quelle individualità che, sempre più spesso, vengono messe in secondo piano perché ritenute sconvenienti ed improduttive debolezze. E se oggi album come “Dirt”, “Jar Of Flies” o il cupo disco col cane a tre zampe continuano ad emozionarci è proprio perché, in quegli album, la band ha saputo mettere sé stessa, senza compromessi o mistificazioni, lasciando che le sue fragilità divenissero musica, una musica intensa, emozionante, resistente, collettiva.
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