Riequilibrare l’universo attraverso strutture ed architetture elettroniche che lacerano quella dimensione virtuale che, sempre più spesso, opprime le nostre esistenze metropolitane, intrappolandole in schemi pre-elaborati, così da ridare vigore all’anima analogica che sussulta, che respira, che cerca, che soffre e che si agita dentro di noi, tentando, di conseguenza, di di riaffermare quelle che sono le nostre emozioni più viscerali, più caotiche, più rumorose, più istintive.
Le trame sonore che disegna Simona Zamboli, in questo nuovo lavoro, sono, infatti, pervase da un’oscurità romantica, vagano nel mondo sotterraneo delle ombre, ne sfruttano le crepe e le fratture per riemergere in superficie ed esplicitare quelle che sono ritmiche oblique, sonorità ambient, beat fluidi e sperimentazioni techno pulsanti che si abbattono su tutto ciò che è pura, inutile, eccessiva e piatta omologazione, in modo da ridare slancio alla nostra individualità perdura, alle nostre fragilità nascoste, ma anche e soprattutto alle passioni che ci completano e ci permettono di essere felici.
Se “Haunting Ruined Landscapes” rappresenta, musicalmente, un mondo ridotto in macerie, “Underworld” è tutto ciò che continua ad ardere sotto i detriti e le rovine, per poi trasformarsi, grazie a brani come “Movement” o “Breathe”, nel seme melodicamente accattivante dal quale far germogliare un ordine più giusto, più tollerante, più vero. Ma tutto ciò non è affatto gratuito, occorre combattere le pulsioni più negative, egoistiche e nichiliste che si agitano in ciascuno di noi. “Giuditta & Oloferne”, intanto, assume la consistenza di un rito di purificazione noise, una sorta di invocazione laica verso quelle forze invisibili che hanno permesso alla vita di essere tale e che, uomini smaniosi di potere e di ricchezze, pensano, erroneamente, di poter controllare a proprio piacimento, condannando l’intero pianeta ad una fine catastrofica.
La risposta più disarmante ed efficace è, appunto, il sorriso. Un sorriso che diventa atto di resistenza estrema, un sorriso che scava nei meandri più torbidi, più asfissianti e più opprimenti della società post-industriale, proponendo paesaggi sonori aspri, ruvidi e taglienti, ma assolutamente necessari, perché il tempo delle facili menzogne è terminato e dobbiamo prendere coscienza delle nostre mancanze, delle nostre ossessioni, delle nostre fobie, di tutti quei comportamenti che ci privano delle nostre emozioni, obbligandoci a seguire percorsi prestabiliti e decisi altrove. Siamo qui, ma, allo stesso tempo, è come se non ci fossimo, come se non fossimo in grado di vedere e di sentire quello che ci succede attorno: “I’m not there” è una triste constatazione, ma è anche la necessaria consapevolezza del baratro oscuro che abbiamo avanti, quella consapevolezza che, accompagnati dagli undici brani di questo disco, ci spronerà a rifiutare il processo auto-distruttivo che ci sta rendendo sempre più soli, più stupidi, più cattivi.
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