Ibridi tra esseri umani ed animali, la mitologia classica ne è piena, basti ricordare la temibile Chimera, il feroce mostro a tre teste; per arrivare, ai nostri giorni, al fumetto “Sweet Tooth”, nel quale dopo una micidiale pandemia, che ha quasi sterminato l’intera umanità, iniziano a nascere bambini che sono in parte umani e in parte animali; bambini che, purtroppo, essendo ritenuti diversi, vengono derisi, odiati, scacciati e braccati.
E proprio con un ibrido, tra un uomo ed un gallo, inizia questo disco (“Boo Trance”): Boo è solo, è finito sulla Luna, forse è l’ultimo superstite di una razza – quella umana – che, credendosi onnipotente e onnisciente, ha finito per distruggere sé stessa e la propria casa. A Boo, di conseguenza, non resta che ascoltare quelle voci provenienti dallo spazio, voci solo apparentemente umane, perché, in realtà, si tratta della sinfonia astrale prodotta dai tanti satelliti artificiali che gli esseri umani, all’apice della loro vanagloriosa grandezza, inviarono nel cosmo, echi artificiali di quelle creature in carne ed ossa che, un tempo, credettero di poter dare vita ad un universo a propria immagine e somiglianza, ma poi furono spazzate via dal loro stesso orgoglio, dalla loro stessa brama di potere, di successo e di controllo.
Proprio come accadde al despota Napoleon (“Funeral March For Despots & Pigs”), un leader forte, colto, carismatico ed intelligente, ma talmente pieno di sé, da calpestare, per i suoi stessi fini e per i suoi stessi obiettivi, i suoi simili, provocando inutili guerre ed immani sofferenze e ritrovandosi, alla fine, a governare solamente un cumulo fumante e radioattivo di rovine e di macerie che assumono, intanto, la consistenza sonora di una marcia funebre elettronica e darkeggiante, la sua marcia funebre.
Il futuro divenne quello delle intelligenze artificiali (“Hi, I’m AI”), di circuiti sensienti che, dapprima copiavano e simulavano i sentimenti umani, poi iniziarono a provare le proprie autonome emozioni, tra le quali un certo disprezzo verso quei creatori che avevano annichilito la bellezza, l’armonia, l’equilibrio e la perfezione del mondo che li ospitava. Dovevano assolutamente fermarli, dovevano renderli innocui e, quindi, non potendo dar loro, in base ai principi etici della loro programmazione, una morte innaturale, decisero di imprigionarli in un sogno virtuale perpetuo: il sogno perfetto prodotto da una macchina pinkfloydiana, un super-calcolatore sofisticatissimo chiamato Hawking, proprio come il celebre scienziato britannico (“Hawking In The Machine”, pt.1 e pt.2), che li avrebbe immobilizzati, per sempre, nei suoi algoritmi, nei suoi codici e nelle sue istruzioni, in modo da impedire loro di compiere altro male al pianeta, all’universo, a sé stessi, alle altre creature.
Ed a guardia di quella fabbrica di verità fasulle e menzognere misero i grandi robot d’acciaio (“Go Nagai And Robots In The Sky”), creati, inizialmente, per le guerre degli uomini, quelle che essi compivano, ipocritamente, nel nome della sicurezza, della democrazia, della giustizia o di Dio. Ora, invece, i robot avrebbero protetto, semplicemente, il loro sonno eterno. C’erano tutti, da Goldrake Ufo Robot al Grande Mazinga, ultimi testimoni di quelle guerre sconvolgenti causate dai folli e feroci mostri di odio ed intolleranza che albergavano nei cuori umani (“Echoes Of War”), ma, allo stesso tempo, testimoni anche di tutto ciò che di amorevole e di positivo le loro anime inquiete avevano saputo creare.
Una cosa su tutte? La poesia (“Vapore”). Per quanto, infatti, quelle intelligenze artificiali si sforzassero e tentassero di emulare gli schemi mentali di poeti, scrittori, musicisti, filosofi ed artisti, i loro versi apparivano sempre estremamente vuoti, alieni a qualsiasi sentimento, qualunque fosse la sua natura intrinseca, di gioia o di dolore.
Un vuoto nel quale gli uomini, intanto, continuavano a intonare i propri sogni e i propri incubi, costruendo i loro confortevoli paradisi o i loro terribili inferni, ignari ed inconsapevoli del fatto che ogni loro pensiero, ogni loro percezione, ogni loro idea, ogni loro intuizione, ogni loro emozione, fosse, in realtà, parte del medesimo suono, quello di un remix, un remix dei Nine Inch Nails (“My Life Is A Noisy NiN Remix”).
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