“Process” è ciò di cui avremmo bisogno dopo che la crisi pandemica mondiale, dalla quale ci avevano detto saremmo usciti più forti, più giusti e più capaci di sostenerci l’un l’altro, non ci ha lasciato, invece, un mondo che è ancora più ostile, più arrabbiato, più sconvolto, sempre più convinto del fatto che l’isolamento, l’individualismo, il sovranismo siano la migliore strada politica, economica e sociale da percorrere per garantire a sé stesso e ai propri affetti più cari un futuro sicuro, pulito e pacifico.
Ai Pinch Points sono sufficienti queste dieci canzoni, in bilico tra garage e punk rock, con le loro sonorità rumorose, vibranti, ritmicamente solide e consistenti ed accattivanti, per sbatterci in faccia tutta l’ansia, tutte le fobie e tutte le paranoie che si sono impadronite delle nostre vite, convincendoci del fatto che possiamo essere felici ed appagati solamente se abbiamo l’ultimo modello di smartphone o di tablet. E per accaparrarcelo rinunciamo al nostro spirito critico, rinunciamo alla conoscenza e alla verità dei fatti, accettando di pagare le nostre rate, accettando i nostri lavori precari e sottopagati e contribuendo a costruire una società sempre più diseguale e competitiva. Ovvio che ci sentiamo frustrati, mentre la domanda della band australiana, “Am I Okay?”, giunge, ironica e sfrontata, come un vero e proprio pugno nello stomaco? Se le nostre prospettive sono solamente queste, materialiste e egoiste, è ovvio che non possiamo sentirci bene, è ovvio che ci sia solamente un grande vuoto e che molti lo colmino con la rabbia, con la prepotenza, con la violenza o con il razzismo. Un razzismo che, però, rispetto a quanto accadeva nel secolo scorso, è più subdolo perché si nasconde dietro la maschera del politicamente corretto, convincendoci del fatto che per avere, domani, un mondo più sicuro e stabile, dobbiamo, necessariamente, accettare dei compromessi. E così facendo rinunciamo alla nostra umanità ogni giorno sempre di più, arrivando a giustificare le guerre, politiche discriminatorie e neo-colonialiste, attacchi ai diritti civili, catastrofi ambientali, muri, divisioni, divieti, visibili ed invisibili, in tutti i luoghi della Terra, comprese le nostre opulente, iper-tecnologiche e falsamente sostenibili città occidentali.
“Process” è urlo liberatorio, mentre le sue chitarre, i suoi cambi repentini di ritmo, le melodie rabbiose sono sia una lettura cruda e realista della situazione attuale, che un incitamento a costruire, ad iniziare dalla propria quotidianità, una società che sia diversa, che non sia sempre succube e subalterna rispetto le politiche liberiste perseguite dai nostri governi, ma, anche attraverso comportamenti, scelte, azioni di dissenso, dimostri, alla maggioranza prona e narcotizzata, che altri futuri sono possibili.
Comments are closed.