Chitarre nervose e pop malinconico, spettri romantici che giungono dagli anni Ottanta, quelli, però, più spinosi e darkeggianti, mentre, intanto, una gelida alba di inizio anno ci rammenta quanto è terrificante questo nostro presente, stretto com’è tra crisi sociali, ambientali ed economiche, mentre gli echi di nuove e micidiali guerre si fanno sempre più vicini. “Dead Meat” è perfetto, dunque, con le sue romantiche e frustranti paranoie, nell’accompagnarci lontano, almeno è esattamente ciò che dovremmo fare, sia mentalmente, che fisicamente. Noi non dovremmo essere qui, a collezionare torti e rinunce, a dar conto di ogni errore, ogni leggerezza, ogni scelta sbagliata, mentre la dimensione virtuale che risucchia la nostra realtà si fa sempre più penetrante, più invasiva, più vorace nel prendersi il nostro tempo e restituirci, in cambio, nuove manie, nuovi stress, nuove ansie, nuove malattie.
Le trame dei Tubs, intrise di jangle-pop ed indie-rock, diventano taglienti, perennemente in bilico tra le nostre riflessioni intime e in mondo frenetico che c’è fuori, quello che chiede, continuamente, altri impegni, altri obblighi, altri appuntamenti, altri sacrifici per il raggiungimento di una felicità finta, una felicità fatta di cadaveri ed oggetti inutili, di mode passeggere e di solitudini eterne che la band britannica tenta di combattere con la tenacia e la morbidezza, con il rumore e la melodia, con momenti più lineari e introspettivi ed altri che, invece, diventano il fuoco vivo da tirare su tutti i nostri nemici, interni ed esterni, che ci costringono a non essere mai noi stessi, a vivere omologandoci a modelli, schemi, teorie che non fanno altro che trasformarci in zombi.
Vivi, ma solo in apparenza, mentre i nostri occhi, i nostri pensieri, i nostri sentimenti restano inchiodati sullo schermo di uno smartphone, su una storia Instagram, su una pubblicità, su un prodotto artificiale, prodotto chissà dove in Cina o in India, che, in realtà, non ci serve a niente. La questione, quindi, è questa: riusciranno delle chitarre, per quanto incisive, dei bassi, per quanto profondi, dei testi, per quanto appassionati, una batteria, per quanto energica, a risvegliarci dal torpore virale della malattia del consumo, del finto progresso e delle politiche buoniste che fingono che va tutto bene e che il futuro sarà fatto solamente di fiducia, amore e tanti, tanti spregevoli, ostili, ipocriti e meschini sorrisini?
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