Non tutte le canzoni debbono, per forza, diventare più profonde, una volta che vengono private dei loro strati più rumorosi e passionali, riconducendole ad una voce accompagnata solo da una chitarra o da un pianoforte elettronico.
Può accadere, certo, ma non è una regola, non può essere solamente una questione per lo studio di produzione, soprattutto quando canzoni concepite per smuovere le coscienze vengono spogliate del loro contenuto emotivo ed epurate facendole passare attraverso un moderno filtro soft che rimuove ogni distorsione, ogni feedback, ogni wah-wah, ogni dissonanza, pretendendo, tra l’altro, di sostituire quel miscuglio di spiritualità, di impeto giovanile, di sonorità new wave, di elettricità chitarristica dei primi storici album con un tenue orizzonte sintetico. Probabilmente un’operazione di questo tipo avrebbe potuto avere maggiore fortuna se gli U2 avessero scelto di re-interpretare e ribaltare brani più nascosti e meno conosciuti del loro ampio repertorio.
Ma non si può dire che la band irlandese manchi di coraggio, visto che ha, praticamente, sostituito, con arrangiamenti intimistici ed acustici, la propria anima elettrica, facendo sì che canzoni storiche seguissero la scia di quel “Songs Of Innocence” che, da sempre, turba ed ossessiona più la band, che il suo pubblico e che, di conseguenza, ha determinato la direzione di questi nuovi arrangiamenti, forzando le medesime soluzioni musicali anche quando la materia che si stava tentando di plasmare aveva forme, tratti e spigoli che non si adattavano al morbido e delicato contenitore scelto.
L’unico vantaggio di questi forzamenti è stato quello di rendere omogenee queste 40 canzoni, facendo sì che “Songs Of Surrender” potesse sviluppare il proprio filo narrativo, come se si trattasse di un vero e proprio album. Ma se ciò, da un lato, lo allontana dalla prevedibilità di un banale greatest hits e ci rende naturale ascoltarlo tutto d’un fiato, dall’altro lato rende i successivi ascolti abbastanza scontati e noiosi.
L’idea originaria di Bono e compagni, ovvero sperimentare nuove tonalità e sensibilità, anche alla luce della propria attuale maturità artistica, professionale ed umana, resta un’ottima idea; il problema, però, è stato quello di farsi eccessivamente influenzare dai risultati ambigui dei loro ultimi album, come se, con questo lavoro, volessero convincerci della bontà di quei loro dischi. Un atteggiamento un po’ troppo ambizioso e supponente che ha prodotto l’effetto contrario, ovvero quello di confermare le recenti perplessità circa la loro odierna visione sonora.
Vista, comunque, la qualità originaria di gran parte delle canzoni del disco, è ovvio che vi siano anche passaggi piacevoli ed è anche possibile che qualcuno opti per queste versioni airpods-like da ascoltare con gli auricolari, ma io preferisco restare connesso alle emozioni viscerali del tempo nel quale queste canzoni sono state concepite. Preferisco le ritmiche marziali di una travagliata, caotica ed infuocata “Sunday Bloody Sunday”, piuttosto che la rinnovata sorella gemella più lineare, ordinata e riflessiva, anche se bisogna ammettere che ci sono canzoni, come “The Miracle (Of Joey Ramone)” che acquistano maggiore spessore nella nuova versione.
“Pride”, però, resterà per sempre un inno generazionale, è stata una stortura volerla ripulire e rallentare, così come “Stories For Boys” è preferibile nella sua urgente veste post-punk, invece che come una ballad per pianoforte. “Walk On”, intanto, viene attualizzata anche a livello testuale, in modo da poter sposare la causa ucraina ed esprimere il sostegno della band per un reale e fattivo percorso di pace, nella consapevolezza dell’inutilità di tutte le guerre, il cui unico risultato è costringerci ad indossare un tragico e doloroso velo di lacrime, nel nome di quell’amore irresistibile, orgoglioso, giusto, capace di sopravvivere a qualsiasi terribile 4 Aprile, che nessun esercito, per quanto spietato, per quanto violento, per quanto guidato da esseri abietti, dispotici, folli e paranoici potrà mai sconfiggere. È questa, in fondo, la loro poesia, indipendentemente dagli anni accumulati, dalle vecchie foto, dai nuovi eroi che irrompono sulla scena, dai posti che abbiamo lasciato, dalle canzoni tristi che ci hanno fatto piangere, ma soprattutto dubitare.
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