Un requiem per il sogno del dopoguerra, ovvero la fine di tutte le nostre aspettative sociali ed economiche, sotto lo sguardo cupo, severo e ostile di Maggie alla quale Roger Waters riserva quello che, probabilmente, è l’attacco più determinato e feroce alle sue politiche liberiste.
Cosa abbiamo fatto all’Inghilterra? Cosa abbiamo fatto al paese che avremmo desiderato ricostruire e migliorare? Cosa abbiamo fatto a noi stessi? Cosa abbiamo fatto ai nostri figli? Cosa abbiamo fatto all’intero pianeta?
Intanto, tra voci, sussurri, rumori, esplosioni improvvise, atrocità compiute da uomini prigionieri delle loro assurde manie di grandezza, i venti di guerra continuano a soffiare impetuosi ed abbattersi soprattutto sui più deboli, sui più fragili e sui più indifesi. Quelle che, un tempo, erano le isole Falkland sono divenute l’Iraq e la Siria, l’Eritrea e lo Yemen, la Somalia e l’Iran, l’Afghanistan e l’attuale Ucraina. La casa per tiranni incurabili, infatti, è sempre più affollata e finché, purtroppo, sarà così, “The Final Cut” rimarrà, nonostante i suoi difetti, un album visceralmente attuale.
Un disco che oltrepassa qualsiasi cautela storica, qualsiasi tentativo di giustificazione politica, qualsiasi pressione mediatica, qualsiasi compromesso economico, qualsiasi indottrinamento dell’opinione pubblica, qualsiasi ricostruzione parziale dei fatti, per ribadire un unico e semplice concetto: nessuna guerra è giusta, nessuna guerra è lecita, nessuna guerra è umana. Un concetto che, ancora oggi, Roger Waters continua a sostenere, difendere e diffondere, incurante delle accuse che gli vengono mosse e nonostante, da più parti, le élite del mondo occidentale lo dipingano come un razzista anti-semita, un vecchio nevrotico disposto a chiudere un occhio sulle nefandezze e le violenze perpetrate dal governo di Putin, pur di criticare e andare contro le politiche perseguite dalla NATO, dagli Stati Uniti d’America e dai loro fedeli e proni alleati.
A differenza del precedente “The Wall” nel quale la guerra è una delle cause principali delle derive alienanti e paranoiche del protagonista Pink – allo stesso tempo alter ego di Roger Waters, ma anche di Syd Barrett – in “The Final Cut” essa perde questa connotazione intima, psicologica e personale e diviene una forza esterna, mostruosa e disumanizzante, oltre che il tema principale di questo viaggio sonoro che non guarda né ai meandri psichedelici del cosmo, né a quelli delle nostre coscienze frammentate, bensì a quelli insanguinati delle trincee, dei campi di battaglia, delle città e dei paesi devastati dai missili e dalle bombe. Nel frattempo lo spettro del compianto Eric Fletcher Waters continua a vagare nella nostra opulenta, spensierata, ipocrita realtà virtuale, simbolo di una società che non può essere redenta. Il disco, infatti, non è in grado di fornire alcuna soluzione, se non quella, appunto, del definitivo taglio finale, oltre il quale non ci rimane, musicalmente, che venire pietrificati dalla distruttiva immagine di un tramonto con due soli; un tramonto nel quale il sole buono, quello che ha permesso alla vita di svilupparsi su questa nostra Terra, viene affiancato da un sole cattivo, nucleare e mortale.
In “The Wall” Roger Waters era stato l’indubbio genio creativo dietro alla narrazione psicologica, teatrale e personale delle vicende di Pink, ma aveva potuto avvalersi della preziosa presenza e dell’indiscusso contributo di David Gilmour, Nick Mason e Richard Wright, grazie ai quali il contesto musicale del doppio LP non si era mai radicalizzato e, anzi, si era mantenuto ampio e fiducioso, riuscendo a mediare tra le due diverse visioni sonore esistenti nei Pink Floyd: quella più operistica e drammatica e quella più rockeggiante. “The Final Cut” spinge, invece, Roger Waters a toccare i suoi limiti, ad estraniarsi e sprofondare nei suoi incubi e nelle sue fobie, lasciando la componente operistica a tessere i fili di una odissea senza speranza, alla disperata ricerca di quell’impossibile momento di catarsi che solo una brutale presa di coscienza, simile al risveglio successivo al piacevole inferno di “Comfortably Numb” o alla malinconica disperazione di “Hey You”, avrebbero potuto garantire. Ed invece, ormai solo e sconfitto, questo nostro vecchio mondo non può che incamminarsi verso la brutale ed inevitabile distruzione finale.
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