Il punk è morto molte volte, ma poi è puntualmente ritornato in vita o forse, in realtà, era morto solamente in base a quelle che erano le nostre statiche, tremebonde e funeste convinzioni. Ma lui, intanto, continuava a fluire, ondata dopo ondata, anno dopo anno, attraverso anime e corpi diversi, incurante di tutte le definizioni, i tentativi di standardizzazione, i revival commerciali, i tour d’addio, le salvifiche e disperate truffe, le alchimie ska/rocksteady/reggae che, puntualmente, ne decretavano il drammatico e per nulla poetico decesso.
Quindi, quand’è che è morto per voi il punk? È mai morto? E cosa stavate facendo mentre il poveretto esalava il suo ultimo, fatidico respiro?
Forse vi eravate perduti dinanzi ad un bancone, rapiti dal ricordo dei vostri anni migliori, mentre qualcuno, da qualche parte, metteva in fila questi otto inni contagiosi, liberatori ed energici, seguendo le trame policromatiche dei suoi scompensi affettivi, dei suoi tonfi improvvisi, delle sue battute d’arresto e delle sue eroiche e deliranti rivoluzioni quotidiane.
“Another Year Closer To Whatever” non fa altro, infatti, che spingerci a guardare in faccia le cose per quello che sono, a non fingere che è sempre tutto, perfettamente, identico, ma, allo stesso tempo, senza farne un dramma ogni volta che qualcosa cambia e noi avremmo preferito che non lo facesse, semplicemente perché gli Operation Ivy erano il nostro punto di riferimento sonoro ed esistenziale e quindi avremmo voluto che non si sciogliessero mai.
La band americana sa, invece, tenerci sulle corde, miscelando le sue trame punk e garage-rock su una accattivante e corposa tela power-pop, così da risvegliarci dal torpore digitale e, contemporaneamente, non gettarci nello sconforto e nel pessimismo assoluto, vista tutta la merda che sembra doverci cadere addosso da un momento all’altro. Brani come “Dirt Pop” o il successivo “Splitting Headache” servono, appunto, a rammentarci che la cosa peggiore è vivere per qualcosa che ci è stato suggerito o imposto dall’esterno, da modelli sociali, politici ed economici che ci hanno venduto per vincenti, accettando, di conseguenza, una vita piatta e prevedibile, rinunciando a quelle che erano le nostre passioni e a quella sensibilità che rappresenta, davvero, la fine. La nostra fine, la fine del rock ‘n’ roll e forse anche la fine del punk. O no?
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