Una visione della musica e della realtà, delle proprie percezioni e dei propri sentimenti, che è intimamente e visceralmente indie-rock. Non importa il carico di frustrazioni che vengono, quotidianamente, generate ed iniettate, anche attraverso i nuovi sofisticati canali virtuali, nel mondo, perché la band americana, forte delle sue trame solari, meditative e melodiche, riuscirà ad uscire dal tunnel di depressione nel quale, spesso, soccombono le nostre giornate e lo farà, in maniera semplice, lineare, intuitiva e dolcemente lo-fi.
Sì, perché è proprio in questi passaggi apparentemente fragili, elementari e svolazzanti, nei loro tenui colori che sembrano destinati, da un momento all’altro, ad essere ricoperti dagli ansiosi, densi, grigi e pressanti strati di smog tecnologico e cibernetico, che si nasconde la formula magica del riscatto e del sollievo, il vertice sonoro ed espressivo dal quale ergersi oltre i minuscoli box virtuali che imprigionano le nostre esistenze e perdersi in un cielo finalmente libero dalle nubi del compromesso, della paura, della decenza, della forma fine a sé stessa.
Un cielo che i Whitney’s Playland riempiono di trame dream-pop, di chitarre spensierate, di linee vocali evocative e di una visione mistica, amorevole e sacra della nostra vita, delle sue interazioni con la natura, con le energie primordiali che fluiscono attraverso gli elementi, con gli spiriti del tempo, con le voci che impediscono al vuoto e al silenzio di prendere il sopravvento fuori e dentro di noi. In fondo questa è semplicemente la bellezza che dovremmo cogliere ogniqualvolta i nostri occhi, le nostre menti e i nostri cuori tornano ad aprirsi e vedere davvero, senza inutili mistificazioni, ciò che hanno attorno.
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