Nel 1991 gli Alice In Chains erano una creatura sconosciuta e misteriosa che intrecciava le proprie sonorità metalliche, d’ispirazione sabbathiana, con una visione aliena ed estraniante della realtà; una visione che proiettava le loro trame crude e psichedeliche, le loro chitarre distorte, i loro riff, i loro wah-wah e soprattutto i testi oscuri di Layne Staley verso il nascente, malefico e magmatico orizzonte grunge.
Questo live, risalente al 1991, ci rimette in connessione con il leggendario e dolente “Dirt”, con quel buco nero nel quale scivolarono tante coscienze e se, allora, qualcuno tentò di evocare la strada del disprezzo, della rabbia sociale o della sfida, è ovvio che si trattava, per lo più, di traumi dolorosi che affondavano le proprie radici in una sensibilità generazionale obliqua che rovistava non solo il proprio passato, ma soprattutto il futuro, facendo sì che un frustante e deludente sudario cadesse su tutti i meccanismi, i luoghi comuni, i passaggi che il sistema – che anch’essi stavano, purtroppo, contribuendo a costruire e consolidare – giudicava e pubblicizzava come necessari, appaganti e vincenti.
Nel live si sente, perennemente, una presenza maligna incombere sulla band, il padrone di “Would?” è anche il nostro fatale padrone, se ne sta lì a disprezzare e distruggere i nostri sogni infantili, mentre qualsiasi luogo e qualsiasi tempo diventano parte di un miraggio maligno; mentre ci sdraiamo, nudi ed indifesi, sul terreno bollente, lasciando che i nostri occhi vaghino, senza meta, in un cielo acido; mentre le sensazioni di caduta, di abbandono, di disfatta diventano una forza concreta, una forza brutale che ci risucchia in un inferno di metallo liquido, di ombre blueseggianti, di amici scomparsi, di visioni paranoiche, di ricordi perduti, di danze tribali, di aghi famelici, di voci che ci appartengono, ma che, allo stesso tempo, sembrano provenire da un’altra dimensione, un’altra persona, da un’altra casa, da un’altra esistenza. “If I would, could you?”
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