Possiamo ritenerci, sufficientemente, soddisfatti? E, soprattutto, possiamo affermare di essere davvero vivi? Quelli che custodiamo, sono, veramente, i nostri pensieri, i nostri sogni, le nostre emozioni? O si tratta solamente di qualcosa che stiamo pagando a rate, ipotecando, magari, il nostro stesso futuro, la nostra felicità, la nostra salvezza?
“Lowland” si apre, con la sua sfuggente malinconia senza tempo, dinanzi a noi, alle nostre ragioni, ai nostri fraintendimenti, abbracciando i nostri sensi e proiettando, sullo schermo mentale della nostra immaginazione, oltre quelle che sono solamente immagini fisse e definite, l’essenza reale degli oggetti, degli spazi urbani, degli ambienti domestici, dei luoghi aperti e delle persone. Bagliori luminescenti, improvvise esplosioni magmatiche, minacciosi e lugubri presagi, polveri e chitarre barrettiane, panorami introspettivi, trame accattivanti di matrice shoegaze e post-rock, più o meno diluite, più o meno dense, più o meno strutturate, mentre, tutt’intorno a noi, nuove sensibilità – pervase da architetture sonore fantastiche ed oniriche – prendono il sopravvento sull’io, sull’individuo, sul suo linguaggio egoistico ed univoco, sulle sue improbabili e fallaci certezze.
Un’enorme spazio vuoto, oltre ogni ansia materiale, oltre ogni affanno consumistico, oltre ogni sciocca resa, oltre ogni inutile compromesso, uno spazio di riscoperta e rinnovamento che i Zugabe utilizzano per ampliare le proprie percezioni, le proprie esperienze musicali, le proprie conoscenze di un nuovo e prezioso vocabolario di sfumature e di riverberi, di echi e di periferie metropolitane, il cui obiettivo ultimo è ritrovare e conservare tutto quello che ci appassiona, tutto quello che ci rende unici, ma, allo stesso tempo, ci rammenta quanto, in realtà, siamo simili e bisognosi d’un contatto, d’una relazione, d’un cammino comune.
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