No, non è un caso, queste bruciature, questi graffi, queste crisi nervose improvvise segnano un ritrovato interesse per sonorità alternative-rock tipiche degli anni Novanta, l’ultimo decennio nel quale era consentito sognare, magari pensare che le cose potessero davvero migliorare, prima che la bolla esplodesse e il suo contenuto morboso e virale si riversasse sulle nostre esistenze periferiche, sulle nostre crisi affettive, sui nostri comportamenti, sulle nostre abitudini, sui nostri sentimenti, sulle nostre idee, rendendole sempre più ovattate, prevedibili, manipolabili, acquistabili, a rate su internet o in un centro commerciale.
Per anni ci hanno raccontato solamente cazzate, ma adesso che a tutti è evidente che questo mondo, tra crisi ambientali, sociali, belliche, industriali o sanitarie sia collassato, ammazzato da plastiche, agenti patogeni, proiettili e byte, affidiamoci, allora, a questi suoni distorti, vigorosi ed energici, intrisi tanto di atmosfere di matrice grunge, quanto di acida, nevrotica e punkeggiante psichedelia apocalittica.
I Laurel Canyon martellano il lugubre e rumoroso congedo dello sciagurato pianeta Terra dalle mappe astrali dell’Universo, mentre, nel frattempo, Steve Albini spinge la band americana ad esplorare un territorio sonoro vivido, diretto, veritiero e, soprattutto, privo di quelle inutili e ridondanti sovrastrutture che ci impediscono di essere noi stessi, di fare ciò che ci piace, di arrabbiarci, innamorarci, allontanarci o ritrovarci senza che qualcuno giudichi tutto ciò giusto, bello o politicamente corretto. Non c’è più posto per queste stronzate in questo disco, nel suo studio di registrazione, in un presente che è sempre più livido e decadente.
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