Un mondo grottesco, un mondo macabro, un mondo perverso, un mondo reso così da un’umanità ostile che cade, spesso, nel rancore e trova la sua assurda ed estraniante pace interiore solamente nel dolore, nella sofferenza, nel male che compie sui propri simili, sugli animali, sulle piante, sull’intero Creato, sul pianeta che gli ha permesso di nascere, di nutrirsi, di imparare, di crescere, di testimoniare il proprio passaggio, di vivere il proprio presente, di ricordare il proprio passato, di costruire il proprio futuro.
Ma esiste, davvero, un futuro che non sia tinto del rosso del sangue e che non chieda, continuamente, il suo enorme tributo di guerra, di devastazione, di follia, di odio, di morte?
Come possiamo liberarci da questo peso che ci opprime e che, a volte, assume le sembianze di personaggi senza alcun senso, di verità impossibili da accettare, di sentimenti che vogliamo, colpevolmente e spesso opportunisticamente, tenere nascosti al mondo esterno, fingendo, invece, di essere tutt’altro?
Forse è per questo motivo che siamo condannati; il nostro narcisismo non ammette alcuna speranza, ma è solo un’inevitabile scivolamento verso quella che è una spietata ed insensibile matematica di omicidi, di stupri, di manie, di vivi che sono già morti e di morti che continuano a dividere e a seminare livore, intolleranza e risentimento tra i vivi, mentre le persone comuni, ormai paralizzate in questo infame incubo ad occhi aperti, non trovano di meglio che celebrare i loro stessi aguzzini, prostrandosi ai piedi dei propri sfruttatori e fingendo di non vedere la pistola carica, che questi killer senza scrupoli tengono stretta in mano.
Un orizzonte oscuro, proprio come quello di uno schermo cinematografico, sul quale proiettare la narrazione fantastica di una perfezione che non può esistere, di un’armonia che non è mai esistita, tra battute a doppio senso, istinti patriarcali, frasi di circostanza e funerali di stato che non fanno altro che rafforzare, purtroppo, la nostra impotenza e la loro arroganza.
Cormac McCarthy, da Providence, l’aveva capito benissimo. Il suo sangue, simile a quello di un coraggioso ed indomito re gaelico, era intriso, infatti, di dolente consapevolezza, quella stessa consapevolezza che ti impone di non voltarti dall’altro quando ti imbatti nel lato più squallido, più opprimente, più miserevole o più bestiale del tuo paese, della tua città, del tuo quartiere, del tuo presente, del tuo mondo, di tutte le persone che ne fanno parte o che, semplicemente, incontri, per caso, in giro. Ed è così – su questa strada – che nascono quei saggi, quei racconti, quei romanzi fatti di parole e di descrizioni toccanti e ricercate, ma, allo stesso tempo, terribilmente feroci, affilate e taglienti, proprio come un coltello o magari un’ascia che si abbatte, inesorabile sul ventre molle della nostra società, facendo sì che tutti i disadattati, i deplorevoli ubriaconi, i tossici, i dannati, i paranoici e tutti quelli caduti e che continuano a cadere in balia delle proprie debolezze, dei propri abusi, delle proprie devianze e delle proprie dipendenze, potessero far ascoltare, per una volta, la propria voce o magari la propria opinione su questo mondo che un sistema politico, sociale ed economico, che si ritiene sano, giusto, corretto e normale, ha, diabolicamente, costruito, affinché il più forte continuasse ad opprimere il più debole, il più ricco continuasse ad umiliare il più povero, il più furbo continuasse a sfruttare il più fragile e pochi lupi continuassero ad impaurire e tenere in scacco miliardi di agnelli.
Siamo orribili, è questa la verità, e Cormac McCarthy non ce l’ha mai nascosto: di qualsiasi cosa egli scrivesse, dai cacciatori di scalpi agli ultimi abitanti di un mondo post-apocalittico e malato, la verità, nelle sue storie, ha sempre urlato le sue inconfutabili e innegabili ragioni.
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