Sette anni fa, l’impegno politico, artistico e poetico di “The Hope Six Demolition Project” le avevano spezzato il cuore, la sua musica di era impregnata di un potente coinvolgimento sociale che le aveva aperto le porte del mondo e le aveva consentito di spingere il suo sguardo indagatore sulle innumerevoli ferite che esseri umani senza alcuno scrupolo avevano inflitto ai propri simili e al nostro prezioso pianeta, ma, allo stesso tempo, tutto questo l’aveva consumata, irritata, delusa, svuotata ed afflitta.
Oggi, il nuovo album di PJ Harvey, tende ad avere un approccio più intimistico alla realtà, senza, però, escluderla del tutto dalla propria narrazione sonora, ma preferendo, semplicemente, lasciare che sia la sola poesia – a volte più cupa, altre volte più abbagliante – a fare da intermediaria tra l’artista inglese, i suoi umori, i suoi interrogativi, le sue esperienze e il mondo esterno. Un mondo esterno che siamo noi stessi, è il natio Dorset, è ogni angolo di questa Terra, con tutti i suoi spettri, i suoi giardini dell’Eden e i suoi pericolosi e fatali baratri.
Tornare è anche avere, finalmente, ritrovato la propria immaginazione, avere avuto il tempo di maturare nuove prospettive, lasciando che noise-rock, atmosfere ipnotiche folkeggianti e divagazioni elettroniche le permettessero di esprimere, ancora una volta, la propria identità, così che la sua poesia musicale risultasse sia cruda e realista, che ultraterrena e fantasiosa. Ed ecco, allora, che, dinanzi ai nostri occhi, prendono forma le sue parole, antichi guerrieri, eroi vagabondi, luoghi immaginari ed intrisi d’amore, mentre una nebbia sottile, che il vento muove con romantica leggerezza, permette ai suoi e ai nostri sentimenti inconfessati di mescolarsi con le trame sonore. Nel frattempo le mani sapienti di John Parish e Flood riempiono il vuoto di vita: di piccoli e significativi rumori, di presenza umana, di fragili accordi, di sottili variazioni tonali, di passaggi stridenti, di voci naturali, di melodie cariche di speranzoso trip-hop che spazzano via la ruggine, che in questi ultimi anni di guerra e di malattia, si è accumulata su ogni forma di relazione sociale: amorosa, affettiva, lavorativa, familiare o amicale, trasformandoci, tutti, in automi impauriti ed incapaci di riconoscere e superare le proprie paure, le proprie mancanze, le proprie maniacali paranoie.
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