Ormai l’antico astio del mondo punk verso le ambientazioni e le trame psichedeliche che avevano caratterizzato quel decennio di ingenue speranze che furono gli anni Sessanta, è stato ampiamente superato e i KVB ne sono la prova concreta.
Nelle loro sonorità, intrise di cupa, funerea e darkeggiante malinconia, nonché di distorto, ossessivo e crudo post-punk, si innestano, con vibrante naturalezza, le divagazioni acide e lisergiche di quella dimensione catartica celata dietro lo specchio del nostro inconscio, laddove i traumi e le fobie personali si trasformano, magicamente, in creature maliziose, in proiezioni mentali perverse, in congetture bizzarre, in esperienze oniriche ai confini della galassia, in iperboliche discese del nostro io più primitivo ed ancestrale.
Eppure l’incipit del disco, la cover “I Ain’t No Miracle Worker” ci rammenta, con forza, che la realtà, con tutte le sue sovrastrutture tecnologiche, i suoi droni armati di missili, le sue multinazionali dell’odio e i suoi confini geopolitici, incombe su tutti noi. Le funeste visioni sonore di “Reverberation” irradiano lampi di buio, mentre la danza gotica di “Medication” cattura i nostri sensi e li intrappola in un paese delle meraviglie spettrale, nel quale lo stesso tempo si sgretola e le ombre del passato – le peggiori ombre del passato – tornano, improvvisamente, a dettar legge, reincarnandosi nelle spregiudicate prospettive di questo assurdo e lascivo presente, un’epoca assolutamente cinica, evanescente, meschina e banale che propone, a chiunque non rientri in quel minuscolo 1% che si è ingiustamente impossessato della totalità delle ricchezze del pianeta, una anonima e sterile strada di superficialità e rate da saldare come soluzione finale a qualsiasi dubbio, qualsiasi ansia, qualsiasi conflitto, qualsiasi malanno.
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