Nello spazio suggestivo e meravigliosamente ammaliante del Teatro Bellini di Napoli, nell’abbraccio del suo loggione e della sua platea, l’incubo inquietante, spiazzante e allucinante di “Metropolis” prende, nuovamente, vita, accompagnato dalle sue visioni destabilizzanti, dalle sue discontinuità spazio-temporali, dai suoi bellicosi presagi, mentre Jeff Mills tenta di addolcirne, sapientemente, ogni spigolosità grazie al tocco amorevole delle sue trame techno, combinando elementi ambient, dark e una rivisitazione, elettronica e cinematografica, di quelle che sono melodie ed armonie classicheggianti.
Il tempo e lo spazio assumono una consistenza onirica ed aliena, le ambientazioni claustrofobiche della città degli operai si materializzano attorno a noi e ci sentiamo, improvvisamente, al servizio della macchina, l’aguzzina che ci maltratta, ci umilia, ci consuma, ci devasta, ma che, allo stesso tempo, ci mantiene, egoisticamente, in vita. In questo remoto passato affonda il nostro peggior futuro, quello nel quale politica, industria, scienza e tecnologia stringono il loro patto diabolico e maledetto e si mettono al servizio del potere demagogico dei padroni, nell’illusione che, un giorno, saranno loro stessi – attraverso i loro stessi mediatori – a fare in modo che le mani operose della città di sotto possano accordarsi e riappacificarsi con la mente che governa la città di sopra. Ma che accordo può esserci se quella mente è afflitta, da secoli, da quell’ancestrale malattia che si chiama brama di manipolazione e di controllo? Che pace può esserci se essa si ritiene l’unica depositaria del sapere e della conoscenza?
Questa mente, molto probabilmente, è del tutto inadatta a comprendere e spiegare sé stessa. Ed anche il nostro cuore, rammentando le pagine di Cormac McCarthy, è un luogo nel quale è bene fare attenzione, perché potrebbero dimorarvi mostri che, come ci insegna la nostra stessa storia, sono capaci di distruggere il mondo intero.
Una società costituita da due sole classi, i cittadini viziati della superficie e gli schiavi umiliati delle profondità, non può essere il modello ed è destinata a soccombere e ad implodere; questo fatto era abbastanza chiaro ed evidente sin dal 1927. Ma oggi, nel 2023, abbiamo il dovere di andare oltre e di riconoscere, come ci suggerisce la musica dello stesso compositore americano, che la speranza di un mondo più sano, più giusto e più vivibile non può mai risiedere in alcun modello statico e precostituito. New wave, techno, house, ambient, darkwave, musica d’avanguardia, trip-hop non sono scompartimenti chiusi e a sé stanti, ma sono in continua e perenne trasformazione ed evoluzione, in un rapporto paritario, in un rapporto osmotico ed egualitario, perché la fine dell’uno comporterebbe la fine di tutti gli altri. E nessuna Maria, nessun eroe, per quanto potente, per quanto persuasivo, per quanto forte, per quanto dotato di eccezionali capacità, potrà mai salvarci, se non accettiamo il fatto che possiamo solamente salvarci assieme, altrimenti, finché gli interessi di una parte avranno la priorità su quelli delle altre parti, perché ritenuti più utili, più remunerativi o più democratici, saremo, fatalmente, destinati a soccombere.
Tutti. In ogni continente. Al di là e al di qua del mare.
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