Asfalto, enormi distese d’asfalto, e poi il cemento, i mattoni, il calcestruzzo, i materiali che danno origine alle nostre città, a strade e parcheggi, palazzi ed alberghi, gli scenari urbani nei quali vagano, sbandano, cadono – a volte senza più rialzarsi – le nostre fobie, le nostre emozioni, le nostre allucinazioni. Loro, in fondo, non hanno un’anima di ferro, sono fatte di frammenti, di ricordi, di speranze e persino di equivoci nei quali è possibile rimanere intrappolati.
Emidio Clementi e Corrado Nuccini, con la preziosa collaborazione di Francesca Bono, Emanuele Reverberi e Stefano Pilia, conducono la loro personale e generosa rilettura di “Motel Chronicles” a Roma, in un luogo che, come la loro musica, aspira a curare le ferite delle nostre anime, a liberare le nostre coscienze da tutti i pregiudizi che impediscono, ai nostri occhi, di vedere le ingiustizie, i tormenti, le sofferenze, che, noi stessi, con i nostri comportamenti, i nostri atteggiamenti, i nostri colpevoli silenzi, contribuiamo a diffondere ed alimentare. Spazi dimenticati, persone dimenticate, guerre dimenticate, abusi dimenticati, di cui, invece, Angelo Mai, Emidio Clementi, i Motel Chronicles tengono memoria, affinché la verità non resti, anch’essa sepolta, sotto le macerie e le devastazioni prodotte dai missili, dalle bombe, dai droni, da quella spirale di odio, di follia, di terrore che non riusciamo o, forse, non vogliamo, fermare.
Ed ecco, allora, che l’Angelo Mai si trasforma in un’America sofferente, nelle solitarie Badlands, attraversate da una Plymouth, sotto un infinito cielo stellato che ci rammenta la nostra piccolezza e soprattutto l’inutilità dei nostri conflitti. Synth, voce, chitarra, tromba, parole, rumori, campionamenti, cercano una luce, qualsiasi luce, cui potersi aggrappare, ma sono solo i nostri occhi, molto probabilmente, a restare chiusi, perché ci hanno detto – e noi, stupidamente, ci siamo lasciati convincere – che lì fuori ci sono dei mostri, delle creature abiette, estremamente diverse da noi, che ci odiano, che vogliono solo il nostro male e che bramano prendere tutto quello che abbiamo, faticosamente, costruito: una casa, un lavoro, una famiglia, gli amici, gli affetti, il futuro. Ma se lasciassimo alla musica il compito di guidarci, se aprissimo gli occhi, ci renderemmo conto che quella diversità è solamente una menzogna, che i veri mostri non sono lì fuori, nelle Badlands delle periferie, nelle Badlands del precariato, nelle Badlands della solitudine, nelle Badlands della povertà, nelle Badlands d’Oriente, nelle Badlands al di là del nostro bel mare, ma sono qui, accanto a noi, sopra di noi, dentro di noi, e non fanno altro che sussurrare mortali preghiere d’odio, mentre le contraddizioni di una società, tossica ed avvelenata, si fanno sempre più grandi.
E noi, oggi, siamo rimasti lì, chiusi in queste bolle, potremmo volare e migrare altrove, ma non lo facciamo, preferiamo il nostro cemento, i nostri muri, i nostri divieti, i parcheggi su cui, prima o poi, andremo a sfracellarci, convinti che fosse il luminoso riflesso di un lago argentato.
Comments are closed.