Le atmosfere di “Infinite Hatch” sono chiassose e turbolente, mentre le linee melodiche del nuovo album sono sottoposte ad un catartico processo di destrutturazione, per poi essere rimodellate in base a quelle che sono le necessità primordiali e naturali del duo di Baton Rouge. Ciò che emerge è art-rock venato di trame punkeggianti e sperimentali: un percorso stravagante che unisce psichedelia ancestrale e caos metropolitano, inglobando, nel proprio grembo, i rumori, le manie, le infatuazioni temporanee, le tempeste informatiche che fanno parte della nostra contraddittoria, ostile e mediatica quotidianità.
Luci ed ombre si confondono, crediamo di aver vinto, ma, invece, non siamo altro che degli ingranaggi, ognuno nel suo posto preciso, ognuno con il suo compito preciso; ingranaggi che gli Spllit gettano a casaccio sul tavolo di lavoro, mentre le divagazioni sghembe di questi dodici brani ci riportano in una dimensione più gioiosa, obliqua e spensierata, quella nella quale la fantasia e la creatività assumono il sopravvento e non esistono più ruoli, ordini, consegne, maschere, direttive o schemi prefissati da seguire e rispettare se non si vuole essere estromessi, considerati dei reietti e guardati in cagnesco.
Le parole, intanto, assumono una consistenza fisica, al di là del loro schietto e diretto significato verbale, così da instaurare un legame ed un contatto con i nostri corpi, con i movimenti degli arti, con le espressioni dei volti, con gli impulsi nervosi che partono dai nostri cervelli drogati, con ciò che sentiamo pulsare ed agitarsi dentro di noi. Per la prima volta, da tanto, troppo tempo, sentiamo di non essere noi gli alieni, di non essere noi quelli sbagliati, di non essere noi quelli imperfetti, ma è tutto quello che ci sta attorno, tutto quello che hanno costruito per tenerci buoni ed ubbidienti, ad essere innaturale, spropositato, opprimente, brutale, violento e profondamente e subdolamente coercitivo nei riguardi di quei fanciulli miracolosi che continuano a vivere, a sognare e ad emozionarsi nel nostro inconscio. Un mondo interiore che queste canzoni tentano di riversare all’esterno, abbattendosi come un uragano post-punk sui confini, sui limiti, sulle barriere istituzionali, sociali, politiche ed economiche che loro – un’alienante ed alienata minoranza vorace di controllo e di potere – hanno imposto a tutti noi, obbligandoci a sopravvivere in piccole ed insignificanti mono-dimensioni di gomma.
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