3 Giugno 1983, incominciamo da questo giorno, il giorno di un’epoca romantica che, forse, non è mai esistita. Un’epoca che non ha alcuna affinità con il nostro attuale presente. Un’epoca di divergenze evidenti, sfruttata, in modo sistematico e coercitivo, per spronarci a lavorare duro, per invogliarci a spendere più di quanto possediamo e, soprattutto, per spingerci a credere e a fidarci dei nostri presidenti, dei nostri direttori, dei nostri superiori, dei nostri governanti, dei nostri capi-popolo, dei nostri sciacalli, dei nostri carcerieri e dei nostri aguzzini.
E’ cambiato tutto, ma, in fondo, non è cambiato niente.
Una band che vive il suo sogno primordiale, che irrompe in una provincia estremamente produttiva e orgogliosamente idealista, ma violentemente monocromatica, claustrofobica e paranoica, bisognosa, di conseguenza, nonostante il suo fasullo ed ostile dissapore, di nuove fantasie sessuali, di nuove idiozie da rincorrere, di nuove ritmiche da profanare, di nuovi amori da tradire e di altrettanto nuovi odi da nutrire ed amplificare.
Perché, allora, non innestare questa forma di punk autarchico nel terreno, fertile e redditizio, di questa pianura disseminata di cittadine benestanti, di tradimenti, di ansie e di inquietudini, di affanni ed agitazione, di pop e tradizione? Perché non dare inizio ad un grande festival di simbolismo sovietico, di slogan crudi e minimali e di antiche parabole? Narrazioni sacre, morte da millenni, che ritornano a vivere, in una palestra reggiana, situata nel bel mezzo di Alexander Platz, mentre, fuori, il passato ammazza il suo bel vitello grasso e uno sciatto e piatto presente, che pensavamo fosse libero e democratico, pacifico e benestante, sicuro e solidale, fissa, pallido e cadaverico, tossico e moribondo, tutto quel ben di Dio sminuzzato, sbrandellato e fatto a pezzi.
Ma Dio è un artista del popolo; Dio diventerà una batteria elettronica; Dio sprofonderà, come un aereo, nel mare del Giappone, per riemergere sulle piacevoli coste salentine; Dio è una benemerita soubrette; Dio è una linea che va da Pankow a Kabul; Dio è un’anima vagante nel DAMS; Dio è un rombo, Dio è un boato, Dio è tutt’altro che nuovo, nuovo, ma compare ogni volta tentano di oltrepassare il limite, di sfondare l’ultima linea, di sterminare un estremo e prezioso baluardo di resistenza o di cancellare, per sempre, ogni trascurabile testimonianza di umanità che ancora sopravvive in questi automi paranoici ed annoiati, stupidi e malati, che si perdono, i loro giorni migliori, gli innumerevoli 3 di Giugno del 1983, per fingere di scopare con gli schermi luminosi, infedeli e procaci, dei loro costosi stimolatori smart.
Ma tanto, si sa, che a Stalingrado non passano.
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