“Viola”, con il suo pop struggente e psichedelico, crudo e sognante, sacro e moribondo, romantico e sfuggente, compassionevole e lascivo, suona proprio come il mondo che, quotidianamente, ci impegniamo a costruire e poi a distruggere, a difendere e, un istante dopo, a deludere, presi come siamo dalle nostre opprimenti e narcotizzanti illusioni. Poi, una volta ritornati nel grembo morbido delle proprie stanze, delle proprie notti insonni, dei propri bar, delle proprie bottiglie, delle proprie fantasie, quando Olive mette su questo disco ed inizia a parlarci, ci sentiamo, finalmente, magicamente, liberi.
Liberi come, oramai, non lo siamo più; liberi come solo la musica può farci sentire; liberi come i fuochi d’artificio in un oscuro cielo notturno; liberi di esplodere nei colori audaci e sgargianti che, solitamente, quando siamo impegnati a consumarci, nelle nostre inutili corse alla ricchezza, al potere o al successo, teniamo, rigorosamente, nascosti, per timore di essere malgiudicati, di essere marginalizzati e di essere trasformati, infine, in quei fantasmi che, spesso e volentieri, fingiamo di non vedere, ogni qualvolta li incrociamo per le strade delle nostre città. Delle nostre città costruite unicamente sulla forma, sull’apparenza e sull’estetica del consumo.
Intanto, le trame e le atmosfere indie-rock del disco si riversano sulle nostre ferite, le infettano di nuovo amore e di rinnovate passioni, le fanno pulsare e bruciare, invadendo il monotono trascinarsi di giorni troppo uguali tra loro con parole affascinanti, con ritmiche incisive e penetranti, con progressioni armoniche che guardano all’infinito, al cosmo materno del quale siamo, inevitabilmente, tutti parte, così come siamo parte di un viaggio che chissà quando è incominciato e che non è ancora terminato. Dunque, allora, sembrano chiederci le gemelle, perché vogliamo fermarci? Perché chiediamo, a qualcun altro, il permesso o l’assenso o il benestare per ogni passo?
Una domanda che riverbera tra le sedici canzoni dell’album e che scuote le nostre coscienze sopite, una domanda che può trasformarsi nella nostalgia per un momento perduto, ma anche nella voglia di ribellarsi ad un destino artificiale di inconcludente e virtuale orrore, nel quale vogliono congelare le nostre idee, le nostre emozioni, le nostre smanie, i nostri piaceri, solamente perché, ai loro minuscoli e guardinghi occhi, esse appaiono troppo equivoche, magari troppo scomode, o troppo ubriache o troppo fatte, a volte troppo sporche o troppo rumorose, troppo graffianti, troppo voluttuose, troppo deliranti, troppo veritiere e, quindi, troppo, troppo pericolose.
Ma le Ian Fays, in fondo, ci rammentano solo com’è che suona davvero la vita, la nostra vita, con tutti i suoi assoli, tutti i suoi ritornelli, tutte le sue pause e tutte le sue improvvise accelerazioni. O vogliamo, davvero, lasciare che ci rinchiudano in questo un eterno funerale, in questo parco giochi di zombi che pretendono di avere tutte le risposte?
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