Dopo la prima leggendaria ondata, la scena punk, nel tentativo di superare qualsiasi barriera espressiva e di andare anche oltre sé stessa e quelli che potevano trasformarsi, ancora una volta, in pericolosi e statici cliché, proprio com’era avvenuto qualche anno prima con il rock acido e psichedelico degli anni Sessanta, iniziò ad assimilare, inglobare, sperimentare, innestare e fare propri elementi, concetti e strutture musicali la cui matrice andava dal funk alla disco-music, dal reggae al dub, dall’elettronica alla musica d’avanguardia, aprendo, contemporaneamente, nuove strade che mettessero la stessa musica in connessione diretta con il mondo del cinema, della moda, delle arti moderne, dei video, dei fumetti, della letteratura e della poesia, per giungere, infine, alla filosofia, all’economia e alla politica.
Questo miscuglio di idee diverse, proveniente da mondi apparentemente disgiunti tra loro, diede, ovviamente, uno slancio enorme alla creatività e permise, parallelamente, di oltrepassare il pessimismo e il fatalismo del punk delle origini, consentendo alle persone e alle nuove generazioni, spesso appartenenti alla così detta working-class, di immaginarsi quel futuro migliore, pacifico e sicuro che, invece, il punk primordiale riduceva solamente ad un cumulo di rovine, di detriti e di macerie. Il tutto, però, continuava ad accadere senza che nessuno osasse solamente pensare che si dovesse rinunciare al principio fondamentale dell’etica punk, ovvero quel DIY che doveva garantire a chiunque, in qualsiasi parte del mondo, anche senza particolari conoscenze o doti tecniche e, soprattutto, anche senza i necessari mezzi economici, la possibilità di prender parte a quella che fu, in un certo senso, la seconda ondata del movimento punk, quella che, a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, si scontrò, apertamente, con le feroci politiche neo-liberiste messe in campo sia dal governo britannico della Thatcher, che da quello americano di Reagan.
Questo movimento sociale permise alle persone comuni, in precedenza escluse dall’elitario ed esclusivo mondo dell’arte, di diventarne, invece, i veri protagonisti, trasformando l’impulso aggressivo, rabbioso e auto-distruttivo del punk in energia partecipativa, in una visione collettiva dell’arte e della musica, in una spinta verso il fai-da-te, verso le contaminazioni, verso il riciclo, verso la diffusione della conoscenza, verso la condivisione delle informazioni e verso tutto ciò fosse in grado di supportare le idee, teorie e politiche antagoniste che si contrapponevano all’ordine vigente, criticando il ruolo esercitato dai governi e da tutte quelle istituzioni, compresi i media e la stampa, che si arrogavano il diritto di stabilire e decidere cosa fosse buono e cosa fosse cattivo, cosa fosse bello e cosa fosse brutto, cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato, cosa fosse arte e cosa, invece, non lo fosse.
Il punk, nelle sue svariate declinazioni, da quelle più dark-rock e quelle più elettroniche, aveva, finalmente, aperto gli occhi al mondo, rifiutava quella che era stata, da sempre, da parte delle major e degli addetti ai lavori, una visione di stampo colonialista della musica rock e, cioè, una gestione che vedeva, in ogni nuovo movimento e in ogni nuova sottocultura, semplicemente qualcosa da mercificare, da sfruttare, da vendere, da banalizzare, da monetizzare e, quando fosse, ormai, priva di vita, da gettare via in una discarica.
Ecco, dunque, la necessità di andare oltre la fine, la fine celebrata da band come i Joy Division o i The Fall; ecco, allora, il bisogno di ammazzare il Dio vecchio, protettore di una società secolarizzata e commercializzata, e di ritrovare il luogo dell’anima, senza paura di non essere compresi, di essere additati come neo-fascisti o di essere bollati come facinorosi e teppisti, giudizi gratuiti che venivano dati, soprattutto, ai punk della prima ondata, prima che le posizioni anti-razziste, le contaminazioni sonore globali, i diritti della working class, l’impegno e la rivolta divenissero alcune delle tematiche fondamentali del movimento, di pari passo alla liberazione dei costumi, alla mimesi aristotelica, all’amore per tutto ciò che sfuma, che decade romanticamente, che svanisce, che muore. Perché quella morte rappresenta un passaggio positivo verso una dimensione esistenziale che fosse, finalmente, svincolata dal padrone, dal consumo, dall’arroganza, dalle armi, dalla prepotenza, dalla violenza, dai tiranni, dalle monarchie e da tutto quello che, all’epoca, impregnava il subdolo sistema di classe britannico, esaltato e difeso dal thatcherismo.
Discogs ha messo in fila, uno dopo l’altro, dodici dischi essenziali per il movimento post-punk. Tutti ottimi dischi, in verità, ma la natura stessa del punk, la sua libertà espressiva, il suo ampio orizzonte, le sue molteplici prospettive sonore, aprono ad altre scelte ed, allora, perché non aggiungere, per gioco, alla lista dei primi dodici dischi, altri dodici dischi che, secondo noi, sono ugualmente belli, ugualmente veri, ugualmente sentiti, ugualmente essenziali?
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