E’ normale, anche scontato, purtroppo, dopo quello che è accaduto, avvolgere questo disco di una luce oscura, soppesare ogni singola parola, ogni sfumatura musicale, ogni simbolo e vedere, in essi, dei segni premonitori, dei messaggi criptici e dei significati soprannaturali in grado di oltrepassare e di trascendere qualsiasi distanza, qualsiasi separazione, qualsiasi epoca, qualsiasi drammatico addio.
Eppure, ascoltando le parole del brano finale, “I Don’t Fear Hell”, è impossibile non ripensare a Steve Albini e alla sua improvvisa scomparsa. Quei versi di sfida verso l’inferno, quei continui richiami alla fine e alla tomba, a tutte le domande senza risposta che accompagnano, da sempre, gli esseri umani, oggi, suonano come un inconsapevole e cupo presagio. Un presagio che, però, non riverbera di paura o di sconforto, ma che, anzi, assume il sapore coraggioso, epico ed intenso di un confronto con sé stessi, con le proprie scelte, con le proprie azioni e con tutti quelli che ci hanno accompagnato in questo interessante viaggio. E se poi, esistesse davvero questa misteriosa meta finale, questo luogo oltre ogni umana e ragionevole comprensione, troveremo altri spiriti, magari affini, con cui interagire e comunicare, mentre, nel frattempo, le sonorità mathcore, post-rock e noise-rock degli Shellac riverberano in questo nostro mondo in perenne bisogno di comprensione, di ascolto e di evasione.
Elementi che sono stati tutt’uno con la visione della musica perseguita da Steve e dalla sua band; una musica vera, senza ridondanze, senza fronzoli, senza ritocchi artificiali, bramosa di esaltare ed amplificare la verità analogica delle chitarre e di ogni altro strumento, in una accattivante e obliqua sovrapposizione di metal, di rock, di punk-hardcore, di sperimentazione e di trame verbali viscerali e spigolose, le quali trovano la loro perfetta dimensione in questi suoni carichi di feedback, di distorsioni, di rabbia, ma anche di una melodia ipnotica e luminosa, libera da qualsiasi compromesso mediatico, commerciale o radiofonico e, quindi, in grado di arrivare ad emozionare le nostre coscienze tormentate e desiderose, solamente, di qualcosa di originale, di reale, di vero e di sincero. Senza alcun fine secondario, senza alcun ritorno in termini di condizionamento, di potere, di controllo o di manipolazione, senza alcuno scopo politico, se non quello di ricordare, a tutti noi, che siamo creature libere e che dobbiamo mantenerci tali, anche se ciò significa difendere delle idee che, per la maggioranza al potere, sono sorpassate o folli o complicate o non abbastanza remunerative.
Tutto, ovviamente, adesso, assume un sapore ed un colore diverso, tutto appare più profondo, forse troppo profondo, rischiando di appesantire quello che, alla fine, resta solamente un disco, il gradito ritorno degli Shellac, la continuazione di un percorso sonoro ed artistico, che non avrebbe mai dovuto trasformarsi in un momento di rammarico, di tristezza o in un ricordo dolente, ma la lezione è che qualsiasi cosa ci possa succedere, qualsiasi cosa ci costringa a modificare i nostri piani o a deviare da quello che immaginavamo dovesse essere la nostra strada, noi dobbiamo saltare, saltare a braccia aperte, come fanno gli amanti quando vanno incontro al proprio prezioso ed inestimabile amore, perché in questo modo anche il peggiore degli incubi può diventare una buona occasione, un punto di svolta, un appiglio cui aggrapparsi per non sprofondare o lasciarsi, pericolosamente, andare. Grazie Steve, grazie anche per questo.
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