Le bocche sono tante, come lo sono pure i diversi idiomi del mondo, le innumerevoli tradizioni, i riti, i culti, le preghiere e, persino, le mode, i comportamenti, i modelli o gli schemi mentali, ma il nostro cuore, nei remoti angoli del pianeta o nelle più moderne metropoli, a qualsiasi latitudine – anche in quelle dilaniate dalla guerra, dalla fame, dalle malattie o da chissà quale altra assurda ingiustizia perpetrata dall’essere umano, nel nome di Dio, del popolo, della patria o della famiglia – resta sempre identico.
Siamo ciò che siamo, possiamo scegliere, di volta in volta, se essere dalla parte di coloro che non trovano pace, ascoltarli, consigliarli, vederli, conoscerli, essergli, insomma, non-indifferenti, oppure se girarci dall’altro lato, fingendo o, ancor peggio, convincendoci che il nostro tempo sia infinito; creature eterne che non conosceranno mai la vecchiaia o la solitudine o la perdita o la malattia o la morte, ma che resteranno, una stagione dopo l’altra, nelle loro splendide bolle virtuali, sulle loro piattaforme social artificiali, a discernere del mondo, delle nazioni, delle persone, dei fatti, degli eventi, come se esse fossero alberi millenari che si confrontano con le generazioni di minuscole e laboriose formiche che si susseguono, una dopo l’altra, ai loro piedi.
Il senso di questa raccolta di poesie, “Canti Della Gratitudine”, è, semplicemente, questo, capire ciò che siamo, capire ciò che possiamo essere e che possiamo fare per gli altri (e, quindi, anche per noi stessi), ed esserne consapevolmente grati, perché, alla fine, nonostante la nostra fragilità, la nostra limitatezza e tutte le sofferenze che patiamo e che, ahimè, infliggiamo al prossimo, noi possiamo scegliere di non restare immobili in silenzio, ma di mostrare quella che Franco Arminio definisce la faccia bella, schietta, limpida, scandalosa, coraggiosa del Bene, l’unica faccia che il Bene è in grado di mostrare, a differenza di quanto fa, invece, il Male.
Una lezione che dovremmo aver imparato benissimo a nostre spese, basterebbe conoscere il nostro passato, o anche solamente la storia del Novecento, con le sue due guerre mondiali, con i suoi pogrom, con i suoi eccidi, con le sue deportazioni, con le sue pulizie etniche, con le sue epurazioni, con i suoi genocidi, con i suoi tanti, troppo morti ammazzati. Scene di violenza brutale che continuano a scorrere, anche in questi giorni, dinanzi ai nostri occhi, scene di bambini assassinati, scene di case, di scuole, di ospedali, di luoghi di lavoro o di convivialità sventrati, scene di gente in perenne lutto che fugge, angosciata ed afflitta, sperando di poter avere ancora un altro giorno da condividere con i propri cari.
Madri, figli, amanti, padri, compagni, fratelli, amici, sposi, spose, sorelle, fidanzati, fidanzate che non sanno – e questo è il nostro crimine più grande – se domani, all’alba, potranno, ancora, svegliarsi prima di colui o di colei che amano e ammirarne il sonno, come se essi fossero parte di una cosa sola.
A loro non tocca nulla, nemmeno la gratitudine di questo ultimo addio.
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