Musiche colossali e cinematografiche, sonorità che si espandono verso i limiti estremi della nostra stessa conoscenza, incuranti delle sciocche e fallaci manie di grandezza degli esseri umani, i quali restano, nonostante il tanto decantato progresso, creature troppo limitate, troppo fragili, troppo deboli e troppo insicure, per sopportare, davvero, quell’enormità di prospettive, di orizzonti, di forze in gioco, di soluzioni e di verità, alle quali, da sempre, diamo nomi differenti: Dio, Creato, Natura, Universo, Destino, Vita, Morte.
Gli Ufomammut, consci, quindi, del pericolo e, cioè, del rischio di impazzire, ci offrono, a modo loro, la possibilità concreta di assaporare ed intuire, grazie alle loro trame sonore doom, sludge e stoner metal, intrise di magmatica, intensa e furiosa psichedelia cosmica, quello che c’è là fuori, se provassimo, davvero, almeno per un istante, ad alzare lo sguardo e uscire dai nostri assuefacenti e convenienti schemi mentali.
Certo, si tratta di ombre contorte, di sfumature, di intrighi, di labirinti, di idee e di essenze, che si manifestano, in quella che è la nostra realtà, come strani presentimenti, come visioni sfuggenti, come sogni o incubi confusi, come istinti improvvisi, come sensazioni inspiegabili ed irrazionali, che ci lasciano scoprire, però, quelle che sono verità remote ed ancestrali; verità che l’uomo moderno, accecato dalla sua superbia, dalla sua arroganza e dal suo distruttivo egocentrismo, non può immaginare o percepire o comprendere. Egli si perde, infatti, dinanzi al tempo e allo spazio, ma il tempo e lo spazio sono solamente un esile velo, c’è ben altro nella luce e nel buio, c’è ben altro nel rumore e nel silenzio, c’è ben altro nel tangibile e nell’astratto; è inutile, dunque, riportare ogni cosa al possesso di un’unica verità e al controllo della fonte delle informazioni, cioè a quegli aspetti puramente materiali, che ci privano, in pratica, della possibilità di uscire dalla rete nella quale siamo intrappolati, di vedere oltre i nostri occhi o di ascoltare oltre le nostre orecchie o di toccare oltre le nostre stesse mani.
Perché i nostri sensi non sono solamente cinque, non lo sono mai stati.
“Hidden” è tutto questo, è il duplice filo che pervade i multiversi, è la magia della scoperta, ma anche tutto ciò che di tormentato, traumatico, sofferto, doloroso, orribile o violento, essa nasconde. Una violenza cruda, ma assolutamente necessaria, che non è quella umana, quella delle guerre, delle morti innocenti, delle ingiustizie o delle inutili distruzioni, non è la violenza generata dall’odio, dall’impotenza o dalla frustrazione, ma è qualcosa di fluido e sottile. E’ qualcosa che ci getta nel panico, come se fossimo stati intrappolati, per l’eternità, nella città di Dunwich, ad osservare, inermi, la fine di tutti quelli che amiamo, siano essi amici o compagni o familiari. Il loro fato, la loro caduta, la loro rovina ci diventano insopportabili, ma è ciò che, alla fine, ci consente di non banalizzare e non svilire la natura preziosa di questi rapporti e dei nostri stessi sentimenti. Nella consapevole brutalità di queste scoperte, il passo verso la follia è minimo, ma le ritmiche incalzanti di questi sei brani, l’eco delle gloriose epopee musicali del passato, dal grunge più metallico alle divagazioni più acide e lisergiche dello space-rock, ci consola, ci solleva, ci rende giustizia.
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