Il cuore palpitante del gelido, ostile e bellicoso invero post-industriale europeo ritrova, ogni tanto, la forza di osare, di emozionarsi e di donare a quelli che, oramai, sono, solamente, popoli assuefatti, indottrinati e tramortiti, qualcosa – un suono, una visione, una storia, un’idea, un impegno, una scelta – per le quali abbia ancora senso stupirsi.
Perché il baratro della disperazione è davvero oscuro e profondo ed i Cold In Berlin ne sono assolutamente consapevoli, intanto che intrecciano, in maniera sorprendente ed interessante, sonorità di matrice stoner, doom, metallica e gotica, con quelle che sono attraenti e malinconiche trame ed atmosfere darkwave e post-punk. Eccola, dunque, la fievole scintilla nella dimensione moribonda e rabbiosa della guerra, la fragile speranza cui affidare i propri pensieri e la propria creatività, nel tentativo di ritrovare, mentre seguiamo la voce di Maya, la casa perduta dei nostri ricordi, delle nostre prospettive, dei nostri sogni e di tutti quei futuri che abbiamo via, via sacrificato, per seguire un cammino alieno ed estraneo. Un cammino tracciato da qualcun altro, pensato in stanze nelle quali non entreremo mai, da persone che non incontreremo mai, ma che vogliono rivenderci sempre la medesima ed ipocrita menzogna. Lo facciamo per voi, per la vostra sicurezza, per il vostro benessere, per la vostra serenità, per le generazioni che verranno dopo, fingendo di non vedere che la voragine che sta inghiottendo, letteralmente, l’umanità intera, diviene sempre più grossa, sempre più minacciosa, sempre più bramosa di anime e di corpi.
Un tempo avevamo i nostri eroi, ma adesso non sono più sufficienti; per quanto possa essere meraviglioso seguire la pulsar CP1919 dei Joy Division, per quanto siano incisive e reali le parole di Siouxsie Sioux o di PJ Harvey, abbiamo bisogno delle persone comuni, della loro curiosità, del loro spirito critico, del loro contributo materiale e, soprattutto, della determinazione ad andare oltre i racconti istituzionali e governativi, oltre il buonismo delle multinazionali, oltre le semplicistiche soluzioni offerte dai politici, oltre una visione arcaica del mondo che vuole un’unica parte – la nostra – animata da buone intenzioni e tutte le altre desiderose solamente di distruggere, di sfruttare, di controllare, di manipolare, di concentrare sempre più potere, armi e ricchezze nelle loro mani sporche di sangue.
E se fossimo tutti così? E se fossimo tutti malati? E se, per guarire, fosse necessario quel taglio netto e drammatico con il proprio erroneo e ricorrente passato di cui, spesso, parlava proprio lui, proprio Ian Curtis?
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