Il rumore. Successivamente il silenzio. Quello più cupo, quello più ostile, quello più tossico, quello più allarmante. Quello che preannuncia l’imminente tempesta, le ferite sanguinanti, le urla disperate, i palazzi che cadono l’uno dopo l’altro, mentre lo scoramento diventa sempre più profondo, sempre più alienante, sempre più bellicoso e, alla fine, resteremo soli, in mezzo ad enormi distese di macerie e di detriti, di scarti e di rottami, nonché di corpi spezzati, di corpi violati, di corpi malati, di corpi anonimi, di corpi ammassati, di corpi ridotti a brandelli.
I Rendez Vous spostano le loro vibranti ed energiche sonorità in questa dimensione opprimente, oppressiva e contorta, spingendo le loro trame punkeggianti verso atmosfere oscure, malefiche e post-industriali. E così le corde del ritorno sfidano quello che è il nostro ostinato presente di guerra e, allo stesso tempo, custodiscono il sapore prezioso di echi, di armonie, di distorsioni e di feedback che richiamano, con dolcezza e sfrontatezza, con impeto e nostalgia, gli anni Novanta, il grunge dalle influenze più grezze, più spigolose e più metalliche, le sue melodie più sofferte e dolorose, ma anche quella che è una pura ed innocente visione del futuro, la quale, analizzata con gli occhi disincantati dell’attualità quotidiana che stiamo vivendo, ci fa sorridere e ci sprona a ridestarci dal venefico torpore virtuale nel quale siamo caduti. Ci piace fingere di essere felici, di sentirci soddisfatti, di avere ancora ideali in cui credere e passioni alle quali aggrapparci. Ma, in realtà, è tutto sempre più esile, è tutto sempre più fragile, è tutto sempre più ovvio, precario, sciocco, scontato, finto, prevedibile, banale.
La band parigina non può e non vuole restare immobilizzata in schemi predefiniti, nei quali persino il lato più selvaggio e quello più rabbioso, o magari quello più sarcastico, divertente e spensierato, finiscono per essere, spregiudicatamente ed abilmente, trasformati in uno slogan commerciale o radiofonico da vendere, a buon mercato, tra gli scaffali artificiali di internet. Sono queste, in fondo, le formule e le vuote ed inutili definizioni che piacciono tanto ai nostri politici, ai nostri presidenti, ai nostri ministri e ai nostri governanti, così da ridurre ogni questione sociale, ambientale, politica, etica o economica ad un conflitto semplicistico tra chi è buono e giusto (loro) e chi, invece, è cattivo e sbagliato (tutti gli altri). E’ chiaro che “Downcast” non ama questo mondo di facili e superficiali definizioni, da ciò nasce la necessità di muoversi in ambienti musicalmente differenti e di preferire direzioni oblique, così da non finire schiacciati dai loro generi, dai loro modelli, dai loro abusi, dalle loro parole senza senso, dirigendosi, piuttosto, di volta in volta, su quella che percepiamo come la strada più interessante, più avvincente, più difficile, ma più vera.
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