Se dovessi sintetizzare in un unico concetto ciò che ha rappresentato, per me, quest’ultima edizione del People Involvement Festival di Frigento, nella verde, affascinante e preziosa Irpinia, questo concetto è “parola”. Perché, nonostante l’enorme e spaventosa quantità di parole che, oggi, ci sommergono, esse, in realtà, non sono in grado di comunicare più nulla, ma sono diventate, esclusivamente, un mero strumento del potere, un prodotto – come tanti altri prodotti – da consumare e poi gettare via, senza alcuna responsabilità, senza alcuna emozione, senza alcun impegno.
La nostra epoca non è migliore o peggiore delle altre, ma, a differenza delle altre, stiamo perdendo la voglia di esplorarla, di illuminarne gli angoli più bui, di scoprirne e rivelarne i segreti nascosti, preferendo vivere in un tempo statico ed artefatto, tossico e pubblicitario, nel quale a nessuno importa più nulla della verità e nessuno sembra voler smascherare i troppi, tanti, numerosi cattivi maestri che continuano ad abbagliarci con le loro politiche semplicistiche e banali, ostili e divisive, autoritarie e distruttive, disumane e violente.
Ecco, allora, che il festival frigentino risponde a tutti questi micro-mondi separati, nemici, diffidenti e bellicosi con quattro portatori di parola, quattro progetti musicali accomunati dalla loro autenticità e dalla loro passione. Parole diverse, certo, alcune più poetiche, altre più combattive, alcune più ironiche, altre più intimistiche, alcune più veementi, altre più riflessive, ma tutte animate dalla consapevolezza della necessità di scavare a fondo, dentro e fuori di noi, in ciascuna strategia politica, economica e sociale ci venga offerta, così da mostrarci tutto il male che facciamo agli altri, al mondo e anche a noi stessi, convinti che l’unica strada possibile sia quella della paura, dei fantasmi del passato, della prepotenza gratuita, del controllo e della manipolazione e, soprattutto, delle armi sempre più potenti, sempre più tecnologiche e sempre più micidiali.
Vasco Brondi è colui che, più di tutti, mette a nudo le singole parole, ne riesce a mostrare la bellezza, passando, con incantevole leggerezza, da Italo Calvino ad Erri De Luca, mente le sue canzoni, vecchie e nuove, con le loro province meccaniche affamate di idee, di suoni e di conoscenza, indagano, senza timore, ogni trauma di questa nostra epoca, senza perdere, però, i legami con i nostri innumerevoli passati, con i nostri luoghi, con i nostri affetti, con i nostri percorsi e con tutti i nomi che abbiamo imparato a pronunciare, a chiamare, a cercare. Il fuoco, intanto, è l’elemento naturale che pervade l’ultimo album e anche il suo spettacolo, mentre le sue parole scorrono in modo schietto, nella amara consapevolezza che non abbiamo più alternative, ma dobbiamo, assolutamente, scegliere la strada del confronto, la strada che conduce alle stelle, anche se siamo caduti nei meandri più profondi dell’inferno; la strada non può essere, quindi, che quella del perdono, quella della poesia che nessuno può davvero meritare, così come non meritiamo le molteplici bellezze che abbiamo attorno a noi, ad iniziare dalle montagne silenziose che ci hanno protetto, in questi due giorni di festival, con il loro amorevole silenzio, con la loro pregevole armonia, con la loro immensa pace.
Intanto, però, non abbiamo mai dimenticato da dove siamo partiti, dalle atmosfere elettriche e distorte degli anni Novanta, con i loro amplificatori e le loro trame crude, spigolose e vibranti. Così come lo sono le parole di Giorgio Canali e la loro forza nel mostrarci tutti i corto-circuiti e le ambiguità della nostra società; una società colpevole, della quale siamo parte, che ha, oramai, delegato ogni vera scelta ad un gruppo ristretto di burocrati, di guerrafondai e di assassini, i quali agiscono, in modo spregiudicato, al di sopra delle nazioni, dei governi e delle istituzioni. Ma forse tutto questo ad alcuni conviene, magari ad altri piace essere fottuti in questo modo, mentre, nel frattempo, ci sommergono di paure, di ansie, di minacce e di così tanti pericoli, che siamo pronti ad accettare qualsiasi nefandezza, dal massacro quotidiano dei Palestinesi, alla guerra che le potenze imperialiste occidentali, Gran Bretagna e Stati Uniti in primis, stanno combattendo in Ucraina. Ed il tutto mentre una Sinistra vera non esiste più e tutti sembrano accontentarsi delle solite frasi di circostanza, dei soliti discorsi sulla Resistenza, delle inutili e false celebrazioni dei tanti 25 Aprile sparsi per il mondo; ma che senso hanno, ormai, queste celebrazioni di facciata, se, nel 2024, persone comuni, persone fragili, persone deboli, persone povere, persone sole, persone indifese, soprattutto anziani e bambini, continuano a morire per nulla? Per quale libertà? Per quale democrazia? Per quale Dio? Per quale dannata patria?
Verso cosa stiamo andando, in realtà? Per che cosa ci stiamo sacrificando? Domande che scavano un solco di sgomento e di terrore tra le persone comuni, un solco di panico e di apprensione nel quale lo spettacolo adrenalinico de L’Officina Della Camomilla si trova a suo agio, mostrandoci tutti i paradossi e le assurdità sulle quali si basa il nostro presente, attraverso un fiume di parole mutevoli, colorate, ambigue, fulminee, scioccanti, impossibili e perfette per le loro sonorità elettroniche, per le loro aperture euforiche e rockeggianti, per la loro visionaria e surreale esposizione di eroi, di miti, di concetti, di errori e di narrazioni pop. E’ un sogno dolce, un sogno crudele, un sogno liberatorio, un sogno asfissiante, sembra di essere intrappolati tra le pagine, le schegge tossiche ed oscure, di Bret Easton Ellis, incapaci di dare un senso alla propria realtà giornaliera, mentre un cupo futuro di morte e di guerra, di sangue e di dolore, di fame e di malattia, si fa sempre più minaccioso e incombente. Ed allora cosa fare? Riprendiamoci, innanzi tutto, il quotidiano, iniziamo dalle cose più semplici, più ovvie, più personali, più dirette, perché, in fondo, come possiamo immaginare di abbattere e rovesciare questo maniacale e paternalista impero del Male se non riusciamo nemmeno a comunicare con quelli che ci stanno accanto?
Le ultime parole di questo articolo sono quelle dei campani Licosa, delle loro storie che guardano, soprattutto, al mare e che, nel mare, tentano di ritrovare la nostra salvezza e la formula che ci permetta di riprenderci tutte le verità perdute, quelle del nostro passato comune, dei torti subiti, delle angherie e delle sopraffazioni dei padroni di ieri, ma, anche e soprattutto, dei padroni di oggi. Padroni che non vivono più in un palazzo baronale o in un castello, in una reggia o in una villa, ma che si nascondono nei nostri computer, nelle nostre TV, nei nostri smartphone, nei prodotti che consumiamo, nelle nostre esistenze virtuali, nell’invisibile cloud e in tutte quelle diavolerie iper-tecnologiche alle quali la band risponde con una miscela avvolgente e malinconica di suoni antichi e moderni, di speranza e di rammarico, di stupore e di tristezza, di elementi più folkeggianti ed altri più elettronici, sempre, però, con l’incrollabile ed analogica certezza che alcune parole, alcune vicende, alcuni luoghi, alcune ferite, alcune persone debbono essere, necessariamente, pronunciate ed ascoltate, suonate e cantate, conservate e mai, mai dimenticate.
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