Quello di Hamilton Santià è un libro ricco di spunti, un libro che ci sprona a guardarci indietro, a scavare nella nostra memoria, nei nostri rimorsi, nei nostri sbagli e in tutti quei patti amari che abbiamo dovuto, per convenienza o compromesso, accettare, rileggendo, allo stesso tempo, in maniera critica, il nostro presente, le sue false promesse e i suoi violenti rigurgiti d’odio, i quali proiettano la loro ombra, tossica e distruttiva, su un futuro che suona terribilmente sciocco, malsano, finto, virale e fraudolento. Le pagine del libro ruotano, intanto, attorno ad un termine del quale, oramai, si abusa continuamente e nel quale, oggi, senza più alcuna vergogna, ci mettiamo dentro, praticamente, tutto: “indie”.
L’autore, quindi, ritorna, con la sua macchina del tempo musicale, agli anni leggendari tra il vecchio ed il nuovo millennio e precisamente al tragico istante nel quale Kurt Cobain decise di mettere fine alla sua narrazione terrena, trasformandosi, immediatamente, in un mito immortale.
Negli anni Duemila, in fondo, il rumore, i feedback, le distorsioni, gli echi e le dissonanze che avevano glorificato gli anni Novanta sono ancora lì, nell’aria; non potevano, certo, scomparire da un momento all’altro ed è proprio in quei giorni successivi al 5 Aprile del 1994 che la stella Indie inizia ad attrarre attorno a sé pianeti e satelliti, corpi celesti più o meno grossi, più o meno significativi, ma anche detriti, rottami, spazzatura e polvere spaziale, mentre, nel frattempo, il fascino, la risonanza e l’impatto del frontman dei Nirvana andavano ben oltre i confini del suo rock e delle etichette che i media tentavano, di volta in volta, di attaccargli addosso, cercando così di istituzionalizzare e sfruttare, ai propri fini commerciali, la sua energia grezza, ribelle ed anti-sistema. Forse sono proprio questi i tratti distintivi di ciò che, alle origini, in quei giorni andati, era l’indie, qualcosa che avesse nell’autenticità, nell’etica DIY del punk, nelle letterature e nelle poesie più crude e viscerali, in una rinnovata sensibilità umana, nella contro-cultura, negli arrangiamenti non convenzionali, nonché nei suoni sperimentali di artisti come i Sonic Youth, i Mudhoney, i Pixies o Steve Albini, i suoi tratti distintivi, senza rifiutare, a differenza di quanto era accaduto alla fine degli anni Settanta, le trame più acide, più oniriche e più psichedeliche di quei giganti e dinosauri del rock che erano stati i Led Zeppelin, Jimi Hendrix o i Beatles.
Quindi, probabilmente, fu proprio questa commistione di arti diverse – dal cinema alla letteratura, dai fumetti alla musica – di epoche diverse, di suoni diversi, di umanità diverse, sintetizzate in un unico concetto, a far sì che, successivamente, chiunque, in base alle proprie esperienze, alle proprie emozioni, ai propri gusti o, purtroppo, ai propri ritorni economici e mediatici, si sentisse libero ed autorizzato di inserire nel contenitore-indie tutto quello che ritenesse piacevole, utile, popolare o semplicemente remunerativo, arrivando, di conseguenza, alla caotica situazione odierna e, in particolare, alla peculiare e bizzarra divergenza tricolore che, nel tempo, ha condotto i più a considerare indie prima gli Afterhours e poi Calcutta (!), prima i C.S.I. e poi i Cani (!).
Ma per quanto ci affanniamo, per quanto ci azzuffiamo, per quanto polemizziamo, per quanto ci teniamo stretti i nostri beniamini e critichiamo quelli altrui, ci sarà sempre qualcuno – come, spesso, ha affermato Max Collini (Offlaga Disco Pax e Spartiti) – che è stato indie prima di te, molto prima di te.
Comments are closed.